Alcuni giorni fa, sulla rubrica The opinionator, il New York Times ha pubblicato un lungo e polemico articolo contro l’ironia di Cristy Wampole, Assistant Professor di Francese a Princeton. L’autrice denuncia in modo appassionato e retoricamente efficace l’attitudine alla distanza dei suoi coetanei, e auspica che ci si liberi dall’ironia, dalla tendenza a evitare qualsiasi presa di posizione seria, tornando a un ethos non più ‘reattivo’ ma ‘attivo’. Si può capire come queste parole, che suonano come un incitamento al rigore e all’impegno, siano suonate condivisibili e persino ‘rinfrescanti’ nel gruppo di coetanei (per lo più con aspirazioni intellettuali) che frequento. Pur condividendo l’assunto etico di fondo, nel proseguire la lettura non ho però potuto reprimere un crescente senso di perplessità.
Sarà che il mio è un osservatorio limitato, per cui non conosco molti hipsters. Sarà che leggo molte notizie di politica, sia italiana sia internazionale, per cui mi pare che ‘disperazione’ e ‘incazzatura’ siano termini più accurati di ‘ironia’ e ‘presa di distanze’ per descrivere l’atteggiamento della generazione mia coetanea. Probabilmente il mio punto di vista è provinciale; ma a me pare che occuparsi in tale dettaglio di come una certa ironia (falsa ironia, la chiamerei io) ci impedisca di prendere posizione sul presente sia una contraddizione in termini.
Più precisamente, a me sembra che l’ironia descritta dall’autrice sia un atteggiamento molto diffuso all’interno di una data cerchia o di una precisa classe sociale, ma non rappresentativo di un’intera generazione – cosa che diversi lettori non hanno mancato di notare nella sezione dei commenti. Con buona pace dei pochi di noi che abitano una bolla accademico-artistico-culturale oppure hanno la fortuna di svolgere lavori creativi (il pubblicitario, il ricercatore universitario, il giornalista e consimili), la maggior parte delle persone vive senza necessariamente simulare, si preoccupa per il proprio presente e futuro, ascolta la musica che ritiene di trovare gradevole e, se parla, pensa di dire ciò che sta dicendo (anche quando in realtà sta dicendo qualcos’altro). E non perché siano ‘infantili’; al contrario, perché a differenza di noi sono “adulti veri” che vivono nel “mondo reale”. Ma questo non è necessariamente un bene, come la stessa retorica del “mondo reale” (usata per incolpare intere classi sociali del loro destino) dimostra.
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Personalmente amo l’ironia, e non credo che tutte le risate siano ridanciane, inutili o idiote. Ci sono risate che feriscono e risate che mordono. Se così non fosse, ad esempio, il sarcasmo non sarebbe considerato un peccato capitale (come invece è, almeno qui in Nordamerica, e comprensibilmente: perché il sarcasmo è un modo di mostrare i muscoli, sia pure quelli del cervello). C’è una grande enfasi, nella cultura letteraria di oggi, sul bisogno di ‘serietà’. Così, mentre il web pullula di meme e immagini assurdamente ridanciane, mentre il potere governa mediante un uso oppressivo della risata, e mentre la continua osmosi tra lavoro e piacere rende alcuni di noi incapaci di rendersi conto della reale abolizione di diritti e tutele, la parte più “consapevole” della nostra società si dà da fare per promuovere forme pulite e quasi edulcorate di humour. Nel frattempo, tra gli intellettuali si predica a gran voce la morte del postmoderno e il ritorno dell’impegno: a volte in via solo teorica e intellettuale, a volte anche in modo concreto, piantando gazebi e dipingendo cartelli. Pur riconoscendo il valore culturale di alcune battaglie (quella per il politically correct, ad esempio) io non credo che un’eventuale vittoria della serietà e della correttezza ci renderebbe necessariamente più liberi o consapevoli.
A mio avviso l’autrice pecca di ingenuità quando identifica l’ironia con un particolare tipo di ironia: quella che lei esemplifica con la posa artefatta dei nuovi “hipster”. Credo che in questo senso la sua formazione letteraria, di studiosa della narrativa post-moderna, possa essere fuorviante. Perché quando leggo una frase come “It stems in part from the belief that this generation has little to offer in terms of culture, that everything has already been done, or that serious commitment to any belief will eventually be subsumed by an opposing belief, rendering the first laughable at best and contemptible at worst,”* mi ritrovo immediatamente trasportata in un ethos filosofico politico di vent’anni fa, dove il picco petrolifero non è nemmeno contemplato, il debito non esiste e il radicalismo politico nemmeno. Siamo ancora dalle parti del dibattito sul postmoderno: un dibattito formulato a livello internazionale (penso alla mostra londinese Postmodernism: Style and Subversion 1970–1990, tenuta nell’autunno del 2011 al Victoria and Albert Museum), e che, nel nostro piccolo, è arrivato anche in Italia, dal dibattito sul New Italian Epic (2008-2010) al dibattito filosofico sul New Realism recentemente animato da Ferraris e Vattimo.
Io credo che non si debba rigettare l’ironia, ma fare qualche utile distinzione, perché nell’appropriazione ridanciana di miti e modelli consumisti non c’è nulla di profondamente ironico. Quella che Wampole descrive nel suo articolo non è ironia, ma una perversione dell’ironia. La caricature di hipster che abita il nuovo secolo (di cui si può leggere un profilo tanto caustico quanto famoso qui) deve prendersi gioco della musica commerciale perché la ama, o perché a dispetto della sua costosa educazione, è culturalmente succube della cultura pop. I nuovi hipster che affollano le strade di Williamsburg e che si considerano trendsetter sono consumatori culturali all’ennesima potenza; ma oggi siamo tutti consumatori culturali, a vari livelli, ed è per questo che il loro atteggiamento estremo ci risulta tanto familiare.
In questo contesto, l’ironia è, o forse dovrebbe essere, la capacità di dirsi produttori, anziché consumatori, di cultura. Di cambiare non il canale, ma il terreno della ricezione. Di usare i linguaggi correnti per formulare un nuovo linguaggio. Non un nuovo messaggio, si badi: questo lo fanno tutti, anche i pubblicitari. Formulare un nuovo linguaggio è, invece, una cosa difficilissima, che è riuscita a pochissimi, solo ai più grandi tra gli scrittori. Italo Calvino, per dirne uno.
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E in Italia? Nel Bel Paese, si sa, siamo malati di umorismo, di macchiettismo, di ironia. Alle peggiori schifezze della nostra classe dirigente reagiamo facendo ‘battute’, sentendoci dei tanti piccoli Totò. La classe politica a propria volta non ritiene di dover governare, assumendosi apertamente la responsabilità della propria macelleria sociale, ma si esprime per battute, scatenando ondate di indignazione a costo zero – dai bamboccioni ai choosy, perfetti equivalenti culturali del ‘que se jodan’ spagnolo.
Se c’è un paese dove in apparenza il Governo Della Risata si è esercitato con pervasiva violenza, questo paese è l’Italia. C’è stato un periodo in cui addirittura si decretava la morte della satira che – si diceva – sarebbe stata superata dalla realtà (effettivamente scene come quelle di un Calderoli che, nel 2006, definiva la propria legge elettorale “una porcata” sembravano tratte dal “Cuore” dei tempi d’oro).
A volte mi capita di chiedermi se l’ironia (o l’antifrasi, che dell’ironia è parente stretta) sia inadeguata a descrivere la repressione delle piazze nel 14 novembre, o l’arroganza della classe dirigente italiana. E credo che nella loro forza comica, le forme di satira non siano inadeguate, a differenza delle tante petizioni e forme varie di clicktivismo e indignazione mediata. Perché denunciano, tra le altre cose, uno stato di linguaggio in cui “le cose non sono le cose,” per cui
l’antifrasi diventa l’unico modo possibile di relazionarsi al potere. Certo non basta fare battute e scrivere satire. Ma nella satira si può annidare un profondo germe di ribellione, e sarebbe ingenuo – oltre che controproducente – volersene privare. E penso al senso di sconcerto che ho provato la prima volta che ho visto una finta pubblicità di Adbusters. Me lo ricordo: fu a Firenze, alla Fortezza da Basso, nei giorni del FSE del 2002 (un luogo non particolarmente ironico, bisogna riconoscerlo). Guardando gli enormi banner finti di Mc Donald’s sventolare dal soffitto, mi ci vollero un paio di secondi per capire che si trattava di una parodia, eppure mi rimase un senso di disagio addosso ancora per qualche minuto.
Siamo sicuri che questa ironia sia la stessa dell’hipster che se ne va in giro con la maglietta di Justin Bieber, si veste da SuperMario per Halloween e afferma di amare la musica di Katy Perry perché è, oh, so shitty? Ne dubito fortemente.
Io credo che alcune di queste rappresentazioni antifrastiche, ironiche o parodiche siano frutto di impotenza – la stessa impotenza che ha animato per secoli le pasquinate, i carnevali, e persino le uccisioni in effigie di tiranni, duci e ducetti. Ma l’impotenza di chi subisce la violenza della storia e non ha altro rifugio che lo sberleffo non è necessariamente la stessa di chi si immagina inerte e passivo, e usa l’ironia come una coperta per continuare a nascondersi. Gridare che i lacrimogeni non rimbalzano su Marte è gridare che il re è nudo: vuol dire denunciare l’assurdità che è già al potere e che ci governa, pretendendo di farci dire che due più due fa cinque.
Per questo anche noi italiani non dobbiamo essere per forza contro l’ironia: ci basterebbe liberarla dall’autocommiserazione, dalla passività, dal narcisismo generazionale e dalla mercificazione, per tornare a usarla come uno strumento verace, violento, disarmonico. Perché l’ironia non è accettazione ridanciana del reale. Questo è ciò di cui ci hanno convinto per vent’anni. Ma l’ironia è altro. È soprattutto distanza: e come tale è una difesa potentissima da quel meccanismo di commercializzazione che, a ritmo sempre più vertiginoso, si appropria di tutte le narrazioni, e soprattutto di quelle serie, ontologicamente ingenue, e cioè di quelle con un messaggio sociale chiaro, rassicurante, impegnato e inquadrabile.
Se un dovere hanno oggi gli artisti e gli intellettuali, è precisamente quello di produrre opere brutte, dissacranti, urticanti, opere che facciano letteralmente schifo – non in qualche modo esteticamente accettabile, ma che ci disgustino e ci rivoltino nell’intimo, che ci sveglino e impediscano in ogni modo di provare piacere. Opere che suscitino in noi un senso di terrore e di violazione, opere che ci spingano a dubitare, con un brivido, della loro finzionalità, invece di presentarsi arrogantemente, e contraddittoriamente, come “reali”. Opere che siano imprendibili, immistificabili, proteiformi. E quindi sì, anche ironiche, se ciò serve a evitarne il consumo.
Guardatevi, piuttosto, dalle narrative ‘impegnate’: producono assuefazione.
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*Traduzione: [questo atteggiamento deriva, almeno in parte, dalla convinzione che questa generazione abbia ben poco da offrire in termini culturali, che tutto sia già stato fatto, o che qualsiasi impegno serio sarà, alla fine dei conti, inglobato da una convinzione di segno opposto, che trasformerà l’ideale di partenza in un oggetto ridicolo (nella migliore delle ipotesi) o disprezzabile (nella peggiore)]
Dopo tanti anni ho incontrato una signora con la quale avevo curato un
programma culturale in una gloriosa radio privata di Bologna (anno 2000 o
2001) e che all’epoca partecipava, come me, alle riunioni di Attac Bo in sala
Benjamin. Parlando della comune esperienza partecipativa (per me breve), la
signora ha citato il nome di una giovane ragazzina dotata di una grande
capacità di sintesi politica: Valentina Fulginiti. A quel punto mi si è acceso
un neurone che, per quanto piccolo, mi ha permesso di ricordare la ragazza in
questione – che mi aveva colpito proprio per la sua “intelligenza praecox”.
Così, cercando in Internet ho creduto di riconoscere non tanto l’immagine (che
non ricordo) ma la capacità di analisi di una giovane donna che si chiama,
appunto, Valentina Fulginiti. Chiunque sia, questa Valentina scrive molto,
moltissimo. E ne ha ben donde: scrive bene e ha una idea ben strutturata su
società, arte ecc. Tra tanto materiale offerto, non c’era che l’imbarazzo
della scelta e io ho scelto di leggere il suo articolo contro il ” contro
l’ironia” della Wampole, perché il tema dell’ironia mi ha sempre affascinato.
Dico subito che con Valentina difendo l’ironia e i suoi addentellati, ma che
non condivido la sua analisi. O meglio: ne comprendo la ratio e se da filosofo
mi trovo d’accordo sulle premesse generali, non altrettanto posso dire su
sviluppi e conclusioni.
La premessa da cui parte il bell’articolo di Valentina è condivisibile: la
società mercificata soffoca arte e ironia permettendo loro di manifestarsi
solo in forme distorte, reificanti. Ora, nell’accezione comune, è ironica ogni
comunicazione in cui chi comunica prende le distanze da quel che dice, facendo
intendere che non lo condivide e lo giudica anzi negativamente. L’ironia è
considerata un tentativo di non assumersi la responsabilità delle proprie
opinioni: di farle capire senza enunciarle o enunciando opinioni opposte. E,
come tale, è vista male in situazioni di pericolo (provate a fare dell’ironia
quando siete sottoposti a controlli da parte di qualsiasi autorità costituita)
e in culture, come quella americana, in cui si insiste molto su una visione
rigidamente contrattuale dell’esistenza (dove ogni comunicazione deve
impegnarci contrattualmente nei confronti di chi la riceve).
Questo fenomeno, accompagnato spesso da inquietudine, è il segno di una
caratteristica fondamentale della nostra vita, e cioè che dietro l’ironia come
fatto stilistico si celi un’ironia sistematica, l’ironia come attributo
inevitabile del nostro “sistema” (Kierkegaard). E l’inquietudine è a sua volta
un’indicazione di quanto questo “sistema” faccia paura, dei rischi cui esso
costantemente ci espone (e del suo essere, in ultima analisi, la negazione
stessa di ogni sistema).
Dal punto di vista di una antropologia filosofica, di volta in volta il
soggetto che io sono compirà una azione, un passo nella realizzazione del
progetto legato a una delle forme che partecipano al mio dialogo interiore. Ma
le altre forme non saranno per questo annullate: esprimeranno invece il loro
commento, distaccato e critico, su quanto ho fatto e i loro suggerimenti su
quanto d’altro avrei potuto (e dovuto) fare. Dove sono io in tutto questo?
Nell’intera pluralità: nella coesistenza dei partecipanti. Se l’azione mi
rende completamente (e magari per sempre) sordo alla loro conversazione, la
mia soggettività scompare. Se la conversazione mi impedisce di agire, ne segue
la scelta di fare nulla, inscenando un modello unilaterale di comportamento –
magari senza rendermene conto, e con l’alibi di non rendermene conto. L’unica
alternativa che mi consente di mantenere il rispetto della mia natura
molteplice è testimoniarla nel tessuto stesso di qualunque cosa io faccia:
seguire la mia scelta fino in fondo in tutta la sua parzialità portandone al
tempo stesso i segni, assumermi fino in fondo il carico di quel che ho scelto
illuminandolo però della disapprovazione e dello scherno manifestati da chi
non è stato scelto. L’ironia che colora così ogni mia mossa (non solo quelle
di carattere comunicativo), lungi dall’essere una strategia per evitare
un’assunzione di responsabilità, rappresenta una più sottile consapevolezza
dell’ampio spettro di istanze cui devo in ogni momento rispondere. Ecco, credo
che le “carnevalate” ecc. di cui parla Valentina siano il frutto di una
malintesa soggettività che parla al singolare, che usa termini come
“carattere” o “individualismo” impoverendo la nostra soggettività e
racchiudendola così in una prigione definitoria e comportamentale senza
scampo.
In questa direzione va il discorso di Valentina sull’arte brutta (neanche il
buon Rosenkranz, nella sua Estetica del Brutto, ha estremizzato il ruolo
dell’arte cone ha fatto Valentina) che ricade in una singolare sorta di
singolarità. E lo dice un Adorniano vagamente pentito. Insomma, posso
apprezzare Schoenberg per le sue idee dodecafoniche e amare il jazz per quello
che può significare, ma non per questo butterò a mare le piccole innovazioni
(melodiche, armoniche e tecniche) dei Beatles nell’ambito della musica cd.
leggera, e il relativo grado di bellezza dostoevskjiana che mi offrono (come
ho sostenuto nei convegni internazionali condotti con l’associazione che avevo
fondato, o nei corsi di filosofia della musica da me tenuti per alcuni anni
all’Università di Bologna, o come testimoniano le mie uscite con un gruppo
teatrale o all’università per anziani ecc. – il tutto rigorosamente da
“precario non di ruolo”). A fronte del dolore che c’è nel mondo e che fonda il
cristianesimo e anche la psicoanalisi (cioè la cultura occidentale), occorre
sviluppare un discorso sul piacere come ha fatto Ermanno Bencivenga (col quale
collaboro da anni) nel suo libro Il piacere, in cui si dà una visione del
mondo opposta a quella freudiana. Era ora.
Potremo, dovremo soffocare l’espressione artistica piacevole come vuole
Valentina? Credo proprio di no! L’arte è una attività creativa che permette di
allargare l’ambito del nostro comune gioco percettivo, aprendolo alla libertà
e alla bellezza, in costante comunicazione con altri che partecipano (sia pur
in misura ridotta) allo stesso gioco. In età adulta l’arte rappresenta per
molti un’area in cui è ancora possibile un comportamento ludico. Dobbiamo
quindi guardarla con favore stigmatizzando però errori e menzogne che ne
snaturano la funzione e il significato.
-l’attività artistica viene regolarmente cristallizzata in particolari oggetti
che acquistano spesso un notevole valore di mercato e sono quindi depositati
in collezioni private o pubbliche protette. E allora è importante sottolineare
che non si dà arte se non c’è attività percettiva, e se questa attività non ha
un carattere ludico. Il concetto stesso di oggetto artistico è frutto di
un’indebita astrazione: per trattare d’arte in modo concreto dobbiamo
concentrarci sui contesti in cui ha luogo un’esperienza artistica, e di solito
i musei non sono fra questi (né lo sono i teatri in cui hanno luogo fedeli
ripetizioni di antichi riti).
-rimirare un quadro di Klee o ascoltare Mozart non ci farà apprezzare l’arte
se la nostra esperienza non sarà almeno simile a quella di Klee o Mozart: se
non saremo in grado, guidati da loro, di sovvertire le nostre abitudini visive
e uditive e quindi trovare sollievo in una nuova forma di ricezione e di
comprensione. L’artista non va isolato dal suo pubblico e quest’ultimo non va
concepito come puramente passivo: senza un comune coinvolgimento, senza
comunicazione, non c’è arte di sorta. Non è quindi possibile partecipare a
esperienze artistiche senza un’opportuna educazione. -L’idea che esistano doti
innate (il genio per l’artista, il gusto per lo spettatore) che permettono la
produzione o la fruizione artistica senza mediazioni è una fandonia che
traccia una netta divisione tra quanti sono “portati” per l’arte e quanti non
lo sono – e quindi a negare il gioco artistico al maggior numero possibile di
persone. Per chi conduce il gioco (l’artista) e per chi se ne fa guidare (lo
spettatore), esso avrà tanto più valore (sarà tanto più un gioco, e tanto più
artistico) quanto meglio versati entrambi saranno nella tradizione e nei
canoni espressivi che vengono utilizzati in modo creativo; e quindi anche in
parte violati e reinventati, ma sempre presupposti. Si evita il consumo quando
si è consapevoli della propria dimensione meticcia, plurale, all’interno della
quale SEGLIERE di respingerlo. L’offerta artistico letteraria, quindi, non
deve essere necessariamente brutta – in questo caso si tratta di una
imposizione come nel caso della mercificazione reificante. Dico questo con
tutto il rispetto per Valentina – alla quale non parlo direttamente perché la
mia vuol essere una risposta pubblica, un semplice ma complesso (ossimoro)
tentativo di offrire una idea diversa dell’ironia e dell’arte. (e chissà che,
con doverosi aggiustamenti, queste due visioni non possano integrarsi).
Cinzio Lombardi