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Tales from a different St. Patrick (2)

In attitudine popular, partire o restare, repubblica delle lettere, road post on marzo 21, 2012 at 12:53 am

Il pullman della Greyhound entra nel Coach Terminal di Rochester con una curva larga e svogliata. È in ritardo di pochi minuti, davvero un’inezia se si considera che la St. Patrick’s Parade ha bloccato la circolazione per quasi sei ore. Eppure una viaggiatrice – una signora magra sulla cinquantina, che regge uno zaino da campeggio e un cuscino lilla – è già sul piede di guerra, pronta a catapultarsi a bordo prima ancora che i motori siano spenti, i portelloni aperti, i bagagli della tratta precedente scaricati. L’altoparlante annuncia l’imbarco, ma l’autista, che probabilmente è al volante fin dalla mattina, vorrebbe prendersi una pausa: il tempo di una sigaretta, uno snack, magari una pisciata. Ci chiede di rientrare e di aspettare qualche minuto. È appoggiato contro il muro e si concede il breve lusso di piluccare alcuni mirtilli da una confezione, quando l’agguerrita backpacker sente il bisogno di tornare a chiedergli qualcosa. «I understand that you’re eating your blueberries, but…», fa in tempo a proferire, prima che l’autista la indirizzi verso ben altra destinazione.

Arriva un secondo bus di una compagnia partner e noi passeggeri diretti a Toronto ci veniamo dirottati sopra. Non si capisce perché, dato che dovremo tutti scendere a Buffalo comunque, ma io come un bravo soldatino ordinato monto in castigo sul mio Trailways sfigato, che non ha la wi-fi e che emana odore di cuccia.

Lasciamo Rochester e nel giro di pochi minuti siamo in aperta campagna. Il sole caldo del tardo pomeriggio conferisce un’aura anche al paesaggio spelacchiato dell’Upstate NY. L’erba ha una sfumatura densa e pastosa, le abitazioni agricole (dei barn, costruzioni note all’italiano medio grazie alla grafica di Farmville) sembrano avvolte in una luce cinematografica. È il cielo di Hopper, nella sua infinita trascendenza.

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Il paesaggio umano della stazione di Buffalo in un fine-settimana mi è familiare – niente a che vedere con i personaggi poco raccomandabili che ci puoi trovare la sera, o con la gente che ho visto transitare per Detroit senza denti (droga? no – piorrea e mancanza di copertura sanitaria) e con scatole di cartone. Famiglie numerose con borsoni stinti, vecchie avvolte in felpe extra-large, pendolari con la felpa della Osgoode Law School, bambini che si rotolano sul pavimento, fidanzati che si sbaciucchiano promettendosi amore eterno almeno per un’altra settimana: un’umanità pendolare che potresti trovare anche alla stazione delle corriere di Reggio Emilia, o di Ravenna.

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Da Buffalo a Toronto, mi ritrovo seduta accanto a una ragazza sino-americana. Parlando scopro che è anche lei un’accademica, lavora in una cittadina del Massachusetts che io conosco (non bene ma ci sono stata anni fa a pranzo con mia zia), e che come me è in viaggio per una convention – la sua è proprio a downtown Toronto. Dopo la nostra breve conversazione, infatti, si rimette a lavorare al suo intervento. Lo sta scrivendo di sana pianta, parola dopo parola, a volte usando direttamente Google Translate dal cinese. Non dovrei farlo, ma non posso impedirmi di sbirciare tra le righe della sua presentazione. L’inglese è una roba da accapponare la pelle.

Ma non intendo giudicare. Magari quest’accademica magra, stressata e dipendente dal wi-fi della Greyhound è la reincarnazione cinese di Marc Bloch e non ha avuto tempo di prepararsi perché stritolata da montagne di composizioni, paper, assignment più o meno creativi, lettere di raccomandazioni, email, comitati, riunioni, incarichi organizzativi, commedie studentesche, ricevimenti ed esami. Ne ho visti, di accademici affermati che presentano un talk tirato insieme in mezza giornata per pura e semplice mancanza di tempo. Se fatico a ricercare io, che sono in un dottorato, mi figuro cosa debba essere la vita di un adjunct – alias precario: perché, sì, gente, i precari esistono anche in Nordamerica.

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Che esistano, ci è stato detto chiaro e tondo proprio alla convention della NeMLA dove sono appena stata. Il giorno precedente, infatti, mi sono unita a un collega (un giovanissimo e brillante anglista del North Carolina) e ho seguito un panel sul futuro dell’accademia – errore da non ripetere mai più, ci ammoniranno i colleghi più anziani la sera.

Un’esperienza avvilente ma istruttiva. C’erano tutti: il radicale tenured che si dice consapevole della propria fortuna, la precaria che da quarant’anni cerca di sindacalizzare il proprio campus, l’esperta di lingue moderne che ha gioiosamente aderito alla filosofia commerciale (sell it babe!), la storica finita a insegnare in un’American University in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini e, dulcis in fundo, il professore a contratto di e-learning (per diversi atenei, comprese alcune delle università ‘for profit’ più screditate degli USA) che magnifica la propria libertà – ah, poter insegnare via skype da una cittadina sperduta del Minnesota! Correggere i paper in pigiama!

Spiace dirlo, ma più che un panel sembra l’A-Team della sfiga accademica. Perché non si tratta semplicemente di “non fare gli schizzinosi” e trovare modi di sopravvivere a un mondo cambiato. No. Per alcuni relatori, si tratta di abbracciarlo con entusiasmo, questo mondo, illudendoci che sia possibile continuare in eterno a trovare delle nicchie e convincendoci che dopo tutto l’accesso alla cultura, il diritto alla formazione siano cose negoziabili. E tanto peggio per la massa di quelli che vengono stritolati – colpa loro, non hanno saputo adattarsi e sopravvivere, non sono stati “furbi”. Non è un caso che l’unico intervento critico provenga da un Graduate Student di UC Berkeley – un simpaticissimo germanista di origini indiane che rivendica di essere il prodotto di un’istruzione pubblica e pone il problema – politico – di rifiutare la mercificazione della cultura. Eppure sono le parole del suo intervento, ancora fortemente improntate a un’etica dell’agire pubblico, a suonare stonate in questo contesto tutto aperto a mediazioni e ‘trattative’, per non dire supino ad accettare i lati peggiori del ‘nuovo’ che avanza. Non c’è più spazio per l’utopia, è fuori moda come le giacche di tweed e i maglioni con le toppe.

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Diciamola tutta: forse ho una crisi di motivazione. Non nel senso che non mi piaccia il mio lavoro (ma è un lavoro, poi?). No. Lo amo il mio lavoro, non saprei farne un altro, ho lasciato il poco che avevo per fare questo lavoro. Se a 28 anni vivo in un basement, non ho una famiglia mia, non ho un legame e vivo appena sopra la soglia di povertà è perché ho deciso di seguire questo percorso. No – non sono io che attraverso una crisi – è il mio lavoro (ma ripeto: è un lavoro, poi?) che ha perso il suo centro gravitazionale, la sua natura, la sua funzione. La crisi motivazionale non ce l’ho io, ce l’ha l’accademia. Io so che cosa posso e voglio fare – è l’accademia che non sa più che cazzo sta facendo. Ed è per questo nell’economia complessiva del nostro lavoro (once again: è un lavoro???), i mezzi (ciò che ci porta soldi, gli studenti-clienti, la visibilità, le marchette, i talk fatti tanto per fare) domina sui fini (ciò in cui dovremmo investire risorse, gli studenti-discenti, il lavoro invisibile, le prese di posizione, la ricerca che dura anni e scopre cose davvero importanti).

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Penso spesso, in occasioni come queste, ai chilometri percorsi in questi due anni e mezzo da Graduate Student. Migliaia di chilometri per presentare ricerche e presenziare a eventi che si trasformeranno in una riga di curriculum – sperando sempre che sia quella determinante per trovare un lavoro. Migliaia di chilometri per tenere insieme le mie mezze patrie – questo Canada che ogni giorno mi insegna una lezione di durezza e quell’Italia che non mi manca e a cui non potrei tornare senza sentirmi tarpare le ali, ma dove continuano a risiedere le persone importanti della mia vita, anche se la mia vita è spaccata in due metà che non danno più un intero. Migliaia di chilometri che significano migliaia di dollari messi da parte, rubati alla qualità della vita nel quotidiano, e migliaia di tonnellate di monossidi e di petrolio, di cherosene e di piombo: il mio mestiere non è certo uno a basso impatto ambientale, almeno per come lo intendo io.

Perché io lo faccio, lo vivo, lo penso a lunga percorrenza.

Non le conto più, le notti e i giorni che ho passato a dormire in pose da contorsionista, le ginocchia contro il mento in improbabili posizioni fetali, le traversate epiche di interi continenti, le notti passate a non-dormire su una panchina dell’aeroporto di Buffalo, le volte che ho passato la frontiera via terra a mezzanotte, tra bimbi spaventati e adulti spazientiti. Non le conto più – perché sono la prosecuzione di una vita di notti all’impiedi, di amori a lunga percorrenza, di famiglie sparpagliate come polline, delle 17 ore di pullman (solo andata – altrettante per il ritorno) che mi hanno portato da Bologna ad Avignone, di una vita di abbracci nel buio e voci rotte e “andate piano”, di notti passate sballottati tra sedili e cuccette, di bretelle che segano le spalle, di schiene che restano doloranti per un giorno o due, di neon puntati in faccia e di niente da dichiarare, a parte la luce dell’alba.

Ed è per questo –sospetto – che mi sento a mio agio solo in questi transiti impossibili – mentre quando giro con il mio vestito buono tirato fuori dallo zaino e il fondotinta sulle occhiaie mi sento straniera, io che vengo da una famiglia per cui decostruire vuol dire darci dentro con la ruspa, mica con Derrida.

E mi pare ironico che, nelle mie tante fughe attraverso questa cultura che mi è sempre sembrata sinonimo di emancipazione, io finisca per riprodurre il destino della famiglia da cui provengo. Che il dottorato all’estero (in teoria la massima ‘posizione di privilegio’ oggi contrabbandata ai giovani della mia generazione in Italia) mi abbia portato in questa comunità di emigranti che si ritrovano a mangiare l’antipasto “mari&monti” e a ballare “Calabrisella Mia” esattamente come la famiglia da cui scappo, come quei parenti che non ho mai veramente conosciuto e capito. E non posso fare a meno di sentirmi sospesa – mai davvero a mio agio – fuori posto nel mondo di vetrate e vetrine e posate lucidate e carte di credito ma costretta a restarci, perché come ho già detto, non c’è un altro lavoro che so fare.

Di nuovo, sorseggio in piedi la tazzina amara del viaggio.

Tempo di andare.

be nazi, be stupid [9 agosto 2010]

In a spasso tra i libri, attitudine popular, generazioni, lavori pieghevoli, malatempora on novembre 16, 2011 at 4:03 am

Questa non è una recensione, anche se ci somiglia molto. Non lo è, per due motivi. Primo, perché sono in ferie, se così si può dire, ferie di una scribacchina quasi professionista, pagata anche nei mesi estivi per continuare a “fare ricerca”. Secondo, perché non ho voglia di essere obiettiva o sistematica, né di servirmi di termini come ‘trama’, ‘ambientazione’, ‘complessità’ o ‘struttura narrativa’, cosa che dovrei fare se stessi recensendo ufficialmente Giovani, nazisti e disoccupati (Castelvecchi 2010).

Avevo sentito parlare di questo libro due anni fa, o forse tre. L’autore era venuto in trasferta a Bologna per presentare il suo romanzo precedente (Italian Fiction, ISBN 2007), un libro sui cosplayers (e, per la cronaca, la presentazione si teneva in quella stessa libreria che compare, sotto falso nome, anche in GND, la libreria Interno 4 di Bologna). A quel tempo, Michele Vaccari stava già lavorando al suo successivo progetto, di cui erano già chiare le linee narrative principali. Mi aveva incuriosito, anche se mai avrei potuto pensare che il libro avrebbe fatto il verso, nel titolo, a una delle mie ossessioni principali: “Giovani, carini e disoccupati”. I film, voglio dire. E anche il titolo, un tricolon di superbo andamento.

“Giovani, nazisti e disoccupati”, nell’italia del 2010 suona un po’ come dire un ipotetico “Precari ma belli”. Una corruzione dell’Italia anni 50, che invece del boom trova una generazione di scoppiati. In fondo, buona parte della narrativa e della cinematografia milleurista (o senzanalirista che dir si voglia) potrebbe dimorare sotto un simile titolo. Il libro di Michele Vaccari no. Fa eccezione. Quel “nazisti” nel titolo, del resto, è lì a dimostrarlo. Sfrigola come soda caustica sulle piastrelle del bagno. Leva ogni senso al termine “giovane”, ogni sorriso, ogni risata registrata.

Il protagonista del romanzo, difatti, non è un giovane. Pur avendo vent’anni, si sente vecchio. Non vecchio: decrepito, inamovibile. “Sentirsi vecchi condizione propria della giovinezza è”, parafrasando le parole rivolte a un’altra giovane-non-giovane dell’attualità letteraria, la Modesta de L’arte della gioia. Ma di sicuro, la condizione descritta da Vaccari stona con quella dominante, oggi. E anche il suo protagonista stona.

I giovani sono decrepiti pur sentendosi invincibili, e nuovissimi. Sono così i giovanissimi aderenti alla nuova estrema destra italiana, quei giovanotti che indossano le magliette del Blocco Studentesco come se fossero gli slogan di Renzo Rosso (slogan come “La nostra rivoluzione sarà una ficata”, dicono niente?). Vecchi che si sentono giovani sono anche gli eterni studenti, i neo-trentenni che non si rendono conto di procedere a larghe falcate verso gli -anta, invecchiati nei loro gilet e nei loro rasta; e i punkabbestia (o -bbancomat, o -mmerda come li chiama folkloristicamente l’io narrante di Vaccari) eterni fuori-sede e fuori-corso, i giovani dello sballo che, negli anni del ritorno all’eroina, ricominciano a chiamarai “tossici”. I precari, persino, quelli che si barcamenano tra un contratto e un aperitivo. Si può scegliere di opporsi a tutto questo mediante l’impegno, la serietà, il lavoro. Oppure NON si può scegliere, e allora si subisce. Certo, anche non scegliere e’, spesso, una scelta. Il non-giovane del romanzo ne è l’esempio. La sua rabbia è eccessiva, svapora senza esplodere, per il troppo bollore.

Giovani, nazisti e disoccupati è un romanzo, o forse persino un racconto lungo, è un “nero” che di “nero” ha solo il colore di certe ambientazioni politiche, ed è un libro ben scritto, con voce e ritmo credibili, forse qualche incertezza di ambientazione e qualche schematismo nella trama, ma un incipit superbo e un finale che non delude. Ma è, soprattutto, un grido d’allarme, un “Non sottovalutateci” (o “sottovalutateLI”, non so) lanciato da quella che non si sente una generazione, al massimo un’accozzaglia di singoli, di individui sull’orlo del fallimento. Un “non sottovalutateci” gridato da chi è inetto, ma che mostra – mediante il ricorso a una metafora politica, quella del nazismo, forse iperbolica ma per nulla infondata – a che cosa può arrivare l’inettitudine, lasciata a se stessa. Un urlo che è una contraddizione in termini. Ma vera, e bruciante.

la biblioteca ai tempi di facebook [2 luglio 2009]

In attitudine popular, facebbok on novembre 16, 2011 at 1:52 am

È il primo pomeriggio di luglio e sono seduta in una delle poche biblioteche bolognesi prive di aria condizionata (lusso che, sul dépliant delle biblioteche comunali è simpaticamente contrassegnato dall’icona di un pinguino). Sto consultando alcune opere di superstiti italiane della Shoah, una lettura che val bene il caldo di questa fornace.
Dalle imposte socchiuse arrivano chiacchiere sparse di studenti del DAMS, l’abbaiare nervoso di un cane.
Alla mia destra, una postazione computer pubblica accesa emana un alito rovente. Sono le quattro quando arriva una ragazza e si siede alla tastiera. È poco più anziana di me, sembra, anche se per essere libera a quest’ora, probabilmente è ancora una studentessa, o al massimo una nullafacente temporanea come me.
L’aria ordinata dei suoi vestiti è parzialmente contraddetta dall’esuberanza dei capelli. Un rigoglio sano, fluttuante e disordinato. Si china sulla tastiera e digita con furia, come una qualsiasi laureanda alle prese con la tesi, o peggio, come una neo-laureata che risponde compulsivamente agli annunci di lavoro da una postazione pubblica (un’esperienza avvilente che non auguro a nessuno).
Dopo un po’ mi arriva una sua risata. Non posso fare a meno di dare una sbirciatina allo schermo e compare l’immancabile striscia blu di facebook. Foto, anzi “fotine” – per quanto possiate pensar male, è così che molti le chiamano – da commentare, pardon: da taggare.
È un fenomeno che noto sempre più spesso. Due mesi fa, in un’altra biblioteca comunale con una fila di computer a parete, tutti ad accesso pubblico, avevo avuto la sconfortante visione di otto (8) schermi affiancati, tutti sintonizzati sulla pagina di accesso a FB. Che, in una biblioteca, fa sempre un certo effetto.
Non ho mai apprezzato le tirate moralistiche su Facebook. Sono connessa, ci passo parte del mio tempo, e anzi ho sempre scrollato le spalle di fronte a certe osservazioni dietrologiche di amici non connessi. «Se volete evitare il Sistema, liberatevi da Windows e passate a Ubuntu», dico in tono superiore. Figuratevi che ne sono “fan”, io.
Facebook è una piattaforma che permette alle persone di fare certe cose, punto. Non ti obbliga a caricare fotografie intime, né a condividere esperienze private e familiari, tantomeno a passare metà della tua vita a chattare con compagni che hai perso di vista dalla fine delle elementari o ex fidanzati di cugine di terzo grado.
Uno strumento offre sempre delle possibilità in più, un ulteriore spazio di contatto – per quanto virtuale – con persone lontane, a volte quasi irraggiungibili dalla distanza, e i miei amici “canadesi” e bostoniani ne sanno qualcosa.
Però mi viene da pensare che anche una biblioteca sia uno strumento che offre delle possibilità di incontro e di contatto. Uno potrebbe anche mettersi offline prima o poi, alzarsi dalla sedia, scegliere la copertina di un libro che lo ispira, mettersi comodo e leggere un’oretta. E magari, così facendo, avrebbe anche qualcosa di nuovo da condividere su facebook.
E se proprio non ha niente da fare, uno potrebbe anche spegnere, dopo un’oretta, e gironzolare per i tavoli. E magari fare una richiesta d’amicizia a qualcuna delle ragazze e dei ragazzi che studiano lì a fianco, sbuffando sul loro mucchietto di fotocopie e di dispense. Chissà che non clicchi il tavolo giusto?
Invece no. Mi rimane in testa la visione di quelle schiene, voltate al resto del mondo, ma inesplicabilmente “connesse”.
Sono le sei meno cinque, so che la biblioteca sta per chiudere. Mentre rimetto in ordine i miei libri e i miei appunti, do una controllatina finale allo schermo della ragazza. Che, finalmente «offline», sta digitando furiosamente i suoi dati sulla schermata di qualche homepage – dai colori potrebbe essere quella dello SVE, Servizio Civile Europeo. Che cosa spinge una persona, evidentemente priva di una connessione internet domestica, a sprecare le sue due uniche ore di connessione gratuita su facebook?
La biblioteca chiude. La ragazza interrompe il proprio lavoro a metà, sbuffa e spegne controvoglia. Usciamo, senza incrociare i nostri sguardi.