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Posts Tagged ‘apocalisse’

Dio benedica l’America. Oppure la salvi.

In attitudine popular, canadian bacon, cinema, recensioni di recensioni, this is the end of the world on dicembre 5, 2012 at 10:12 PM
Un fotogramma da "Detropia"

Un fotogramma da “Detropia”

Un mese fa mi trovavo a Detroit, in Michigan, per una giornata di studi sulla letteratura apocalittica alla Wayne State University. Lo so, la location non poteva essere più adatta all’argomento. Quasi tutti i miei conoscenti, canadesi e americani, hanno già fatto questa battuta, resi edotti – più che da Michael Moore – da documentari come Detropia. Sia detto per inciso, a me Detroit è piaciuta. L’ho trovata una città complessa e viva, e contrariamente al resto del Michigan, in risalita (semmai a rischio di gentrificazione, dato il numero di artisti che la crisi immobiliare ha attratto da 4 o 5 anni a questa parte). E poi ha una delle più importanti collezioni di arte di tutti gli Stati Uniti, che risale ai tempi in cui il famoso 1%, dopo aver sfruttato generazioni di operai, comperava quadri di Bruegel e Matisse a paccate per regalarvi città. Ancora oggi i residenti possono entrare gratis al Detroit Institute of Art, dove, tra le altre cose, ho potuto coronare il sogno di una vita vedendo dal vero le matrici di Sogno e menzogna di Franco” e diverse matrici di Jazz di Matisse. Certo, che le sale di arte afroamericana siano sponsorizzate da General Motors, fa un bell’effetto. Ma non è di questo che vorrei parlare, anche se questa contraddizione è indicativa delle mille complessità di una cultura troppo spesso liquidata con un’alzata di spalle e ridotta, da chi non la conosce, allo stereotipo di Coca Cola e Mc Donald’s.

Durante una pausa del seminario, chiacchierando, uno dei docenti intervenuti si è messo a parlare di The Hunger Games e del fatto che i suoi studenti ne abbiano immediatamente assimilato l’idea in modo commerciale, per esempio esibendo le ‘unghie smaltate’ a tema, a riprova del fatto che qualsiasi critica al sistema viene immediatamente assorbita e resa innocua. Posto che The Hunger Games mi pare già in partenza più assimilabile al mainstream che alla critica del mainstream, la discussione mi è tornata in mente ieri sera, guardand

Unghie a tema - The Hunger Games

Unghie a tema – The Hunger Games

o un altro film: Good Bless America, uscito la scorsa primavera nelle sale americane e diretto dallo stand-up comedian Robert “Bobcat” Goldthwait.

God bless America è un film discutibile da tutti i punti di vista. Discutibile la sua trama, che, come ha notato il recensore John Patterson sulle colonne del Guardian, sembra scritta sul retro di un tovagliolo; discutibile la sua coerenza narrativa, che sfida spesso il senso della logica; discutibile il suo contenuto (per lo più scene di violenza estrema o di volgarità televisiva) e il suo senso dello humor, che definire ‘nero’ è dire poco. Un film irrisolto, ma che a mio avviso vale la pena di guardare – sempre che si abbia lo stomaco di farlo.

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La trama si riassume facilmente: Frank (interpretato da Joel Murray), un colletto bianco di Syracuse, NY, vive una vita grama e solitaria, scandita da emicranie invalidanti, dalle urla dei vicini di casa e dagli atteggiamenti manipolatori dell’ex-moglie, una deficiente capace di regalare un blackberry a una bambina di sette anni. Tutto questo è acuito dalla consapevolezza di una volgarità dilagante, che i media (in particolare tv e internet) stanno elevando a nuovo stile di vita americano. Fin qui, Frank è solo il tipo un po’ strambo e fuori moda che i colleghi trattano con sussiego, ma nel giro di 24 ore, la sua vita cambia completamente. Perde il lavoro (dopo che un suo corteggiamento all’antica, con tanto di fiori mandati a casa, viene interpretato come molestia sessuale) e si vede diagnosticare un tumore al cervello nell’indifferenza più completa. La sera, a casa, mentre medita di farla finita, la consueta volgarità televisiva gli schiude un’epifania: invece di uccidersi, ruba la Camaro gialla del vicino di casa e si dirige alla volta della Virginia, per uccidere a pistolettate Chloe, l’adolescente più viziata d’America, appena vista in televisione. Dopo l’assassinio, si unisce a lui Roxy (interpretata da Tara Lynn Barr), un’adolescente con una chiara predisposizione all’ADD e all’omicidio di massa. I due proseguono la loro fuga indisturbati, facendo le vendette di celebrità da talk-show, estremisti di destra e fanatici religiosi, maleducati da cinema e da parcheggio, anchorman di estrema destra e promotori della cultura d’odio, fan di Mixed Martial Arts (su questo potrei persino essere d’accordo) e giudici di talent show: insomma, chiunque promuova attivamente la bruttura, il fanatismo, la violenza psicologica verso il più debole e l’esibizionismo attualmente dominanti nella pop culture americana.

Per quanto la sua violenza venga attenuata dal filtro della satira e della finzione, God Bless America è un film dove si spara e si ammazza a ripetizione, in modo prima disturbante, poi dissacrante, quindi anestetico. Per capire la portata liberatoria di questa ecatombe, bisogna aver visto almeno qualche ora di televisione americana. So che i miei connazionali alzano le ciglia (dopotutto noi abbiamo avuto Berlusconi), ma la sensazione di shock e direi quasi di terrore che si prova a fare un’ora di zapping sulla televisione americana non è esprimibile con parole umane e non è comprensibile a chi non ne abbia fatta esperienza diretta. Per questo, i venti minuti di satira televisiva che scatenano la follia omicida di Frank valgono da soli il prezzo del biglietto (o della sottoscrizione a Netflix). Capisaldi della trash tv americana come American Idol, The Bad Girls Club e My Super Sweet Sixteen sono parodiati in versioni appena più estreme, ma ben riconoscibili. Le finte clip sembrano, a volte, debitrici delle ‘vere’ clip pescate nel mare magnum di YouTube, quasi a dirci che la realtà della trash tv americana è ben più estrema di qualsiasi parodia. Chloe, la teenager viziata della finzione, parla con parole della (?) realtà. In questo modo il film assume il linguaggio della clip, dello spot o del frammento di tv verità che vuole criticare; allo stesso modo, la completa nonchalance con cui i personaggi uccidono ricorda quella di un videogame. God bless America mi ha ricordato, guardandolo, gli adolescenti di The Hunger Games (che, a detta della sua autrice, è stato concepito proprio in una seduta di zapping, nello straniante contrasto tra scene di guerra e scene di reality show); o il bellissimo e spietato protagonista di We need to talk about Kevin (2012), forse il film che ha trattato con maggior complessità e profondità il tema delle sparatorie di massa americane.

Per questo, nonostante la sottigliezze narrative (tra cui il sottotesto di riferimenti cinematografici e letterari, compresa una doppia citazione di Lolita, una delle quali implicita) e le battute fulminanti, il film di Goldthwait non mi ha convinto. E il motivo non è solo la sua continua, martellante, esasperante brutalità; e nemmeno, problema ben più grave, la superficialità con cui affronta un tema molto delicato (nel guardare la pioggia di pallottole del film tornano in mente le sparatorie di Columbine, di Aurora in Colorado, del Virgina Tech: tragedie autentiche che forse meriterebbero un po’ più di rispetto); ma la completa, contraddittoria circolarità tra il mondo che critica e la sua possibile alternativa, quasi a significare che ogni battaglia è persa in partenza e che ogni possibile opposizione contiene in sé il germe della propria capitolazione al nemico. Del resto, come si diceva, di contraddizioni è piena l’America.

alleg(o)ria di naufragi

In a spasso tra i libri, this is the end of the world on febbraio 4, 2012 at 2:49 am

Alcuni giorni dopo il disastro della Costa Concordia, hanno cominciato a circolare immagini come questa:

Titanic come Costa Concordia? Probabilmente sì, ma non nel senso in cui lo intendono i numerologi da web, tra improbabili calendari maya e complotti da multisala di periferia. La mia ipotesi è che Costa Concordia e Titanic si assomiglino in quanto produzioni discorsive, in quanto rappresentazioni condivise che entrano nel nostro immaginario sovrapponendosi alle circostanze storiche. Per usare una parola pericolosa, si assomigliano in quanto “sintomi”. Nello scegliere questa espressione, già mi sembra di sentire la più prevedibile delle obiezioni: come si fa a parlare di “sintomo” di fronte a decine tra vittime accertate e dispersi? Ma che un evento sia leggibile come “sintomo” non toglie nulla alla tragedia delle sue morti, o alle sue disastrosi conseguenze ambientali ed economiche. Il problema, anzi è esattamente questo: che funziona come simbolo, nonostante e malgrado la sua portata reale. E che finché lavora sul piano simbolico, finché agisce come un sintomo, siamo impossibilitati ad agire. Ma facciamo un passo indietro di un secolo, a un altro mondo.

1. Eventi e sintomi

Già nel 1989, nel libro della sua consacrazione, The Sublime Object of Ideology, Slavoj Žižek rifletteva sulle rappresentazioni condivise di eventi catastrofici. Da dove ritorna il Rimosso, si chiede il teorico, parafrasando Lacan? “Dal futuro”, è la laconica risposta. Ed è proprio il “nodo di significati” racchiuso nel naufragio del Titanic a offrirgli l’esempio di questo “ritorno del rimosso”: con l’affondamento dell’inaffondabile Titanic, “l’impossibile era accaduto”, il “futuro” era arrivato.

Il naufragio della nave da crociera più grande del mondo era stato previsto, infatti, quasi letteralmente, da un romanzo di Morgan Robertson nel 1898, suggestivamente intitolato Futility. Le cause dell’impatto (la collisione con un iceberg), le misure della nave, l’insufficienza delle scialuppe, la hybris con cui entrambe le navi erano state dichiarate “inaffondabili”, e, da ultimo, persino il nome (Titan nella finzione, Titanic nella realtà): tutto, o quasi, era stato previsto (2009, 74-75). La coincidenza, naturalmente, non prova le capacità divinatorie degli scrittori (potere che è stato variamente attribuito a qualunque scrittori dotato di lungimiranza o di profonda capacità analitica, a cominciare da Pasolini); esso prova però che la letteratura (così come il cinema, l’arte, e la produzione di immaginario in senso lato) può generare gli orizzonti di senso, le iscrizioni simboliche in cui gli eventi reali trovano posto. Il Titanic, insomma, si inscrive nell’immaginario collettivo come una tragedia di quel tipo perché c’è un orizzonte pronto ad accoglierlo e a modellarne la ricezione; e questo orizzonte è talmente consolidato da aver dato origine, prima del fatto, a sue proiezioni letterarie. Usando le dirette parole dell’autore:

A cavallo tra i due secoli, era ormai parte dello Zeitgest che una certa epoca stesse per volgere al termine (l’epoca del progresso pacifico, di distinzioni di classe ben definite e stabili, e via dicendo). […] Nuovi pericoli aleggiavano nell’aria (movimenti sindacali, l’erompere del nazionalismo, l’antisemitismo, il pericolo della guerra) che avrebbero ben presto contaminato l’immagine idilliaca della civiltà occidentale, liberandone il potenziale di “barbarie”. E se c’è un fenomeno che, al volger del secolo, simboleggiava la fine di quest’epoca, si trattava appunto dei grandi transatlantici: palazzi galleggianti, meraviglie del progresso tecnico, macchine incredibilmente complicate e ben funzionanti; e, al tempo stesso, luoghi d’incontro per la crème della società: un microcosmo della struttura sociale, che offriva ’immagine della società non come essa appariva realmente, ma come essa avrebbe voluto apparire per risultare “piacevole:, una totalità stabile con distinzioni di classe ben definite e via dicendo – in breve, l’ego-ideale della società (2009, 75-76)

Per il teorico sloveno, dunque sarebbe stato proprio questo insieme di sovra-determinazioni, e non la portata effettivamente catastrofica dell’evento a giustificarne la ricezione traumatica: l’affondamento del Titanic “fu letto come un simbolo, come una rappresentazione condensata e metaforica del disastro della catastrofe della civiltà europea in quanto tale” (2000, 76). “Siamo soliti dire che la seducente presenza della Cosa ne oscura il significato”, sostiene Žižek, affrettandosi però a dire che, nel caso del Titanic, “è vero il contrario: il significato oscura il terribile impatto della pura presenza” (2009, 77). Il “futuro” preesiste dunque all’evento, condizionandone la nostra interpretazione e ricezione storica.  Si tratta di una riflessione importante, che illumina sui rischi di un’immaginazione apocalittica che si limiti a riproporre immagini e scenari di un “trauma” già avvenuto, oscurando così la nostra comprensione del presente.

2. Economie colate a picco

La situazione che permette al Titanic di diventare “sintomo” è, in nuce, simile a quella vissuta oggi dalla Costa Concordia, almeno stando ai fotomontaggi amatoriali diffusi su blog e social media. E in un recente intervento (Naufrage avec spectateurs… essai de psychanalyse d’un point de vue médiatique…) leggibile qui, lo studioso francese Olivier Beuvelet ha proposto una lettura simile :

Questa fissazione francese (ma, a quanto pare, anche italiana) per la figura del ”naufragio con spettatore” è dunque un sintomo, la cui natura è resa evidente dal suo carattere ripetitivo ed emblematico; un sintomo che ci presenta ben altro da ciò che si ritiene messo in gioco dall’immagine, nel contesto della copertura mediatica dell’evento. Lungi dall’informare, mi sembra che le prodezze estetiche dei fotografi e la fascinazione condivisa per il relitto visto dalla terraferma, insite in queste immagini, abbiano un altro scopo, che manifestino qualcosa di diverso.

Un sintomo, dunque, ma di che cosa? Del tracollo della nostra società, a cominciare proprio dalle nostre inaffondabili e titaniche economie e dalle nostre fortezze galleggianti. L’immagine del naufragio nel cuore del Mediterraneo, per Beuvelet, viene dunque a sovrapporsi ai numerosi tracolli finanziari e agli scandali che dal 2008 si susseguono senza posa. “Per come le cose sono state presentate, Schettino starebbe alla Costa come Nick Leeson alla Barings, o Jérôme Kerviel alla Société Générale: un dipendente azzardato e incosciente”, scrive infatti il teorico francese. E ancora:

Dopo la crisi del 2008 che ha visto la Lehmann Brothers colare a picco sotto gli occhi del governo americano, i naufragi economici sono stati numerosi, e l’idea che la stessa Nave dello Stato possa dichiarare fallimento, o affondare sotto gli assalti delle tempeste speculative, sommersa dal debito, non è più solo un incubo : è un orizzonte concreto per molti paesi. La perdita del rating AAA per la Francia, all’indomani di quel naufragio nel Mediterraneo, avrà solo dato materiale alle rappresentazioni del relitto della Costa Concordia, a questa strana fissazione per quell’immensa casa galleggiante, una sorta di memento mori mediterraneo e vittima propiziatoria per la zona Euro : rallegriamoci, finché stiamo sulla terraferma!

Beuvelet, nel suo articolo, fa esplicito riferimento a Hans Blumenberg e al suo celebre Naufragio con spettatore [1979], il libro in cui il paradigma del “naufragio” è indagato nella sua rilevanza simbolica e filosofica, fin dal suo uso originario da parte di Lucrezio. Tanto più colpisce, allora, che il teorico francese non citi il passo in cui Blumenberg fa diretto riferimento al Titanic. Ne riporto uno stralcio qui di seguito:

In termini quantitativi, il diciannovesimo secolo è stata senz’altro l’epoca dei naufragi. Fino all’affondamento del Titanic, la forza della natura si è manifestata in modo più convincente che mai; nel diciannovesimo secolo, la sola Inghilterra perdeva più di 5000 uomini all’anno per affondamenti; al largo delle coste britanniche ci furono 700 naufragi nei primi sei mesi del 1880, e 919 nei primi sei mesi del 1881 – in memoria dei quali J.M.W. Turner pose un ultimo, fiero monumento dello struggersi romantico per la morte (1997, 67).

Il disastro del Titanic è la “catastrofe” per eccellenza esattamente in quanto appartiene all’ordine naturale delle cose. Il potere di metaforizzazione prevale su quello della realtà proprio grazie all’ineliminabile violenza di quest’ultima: “A dispetto di questa realtà”, osserva Blumenberg, “l’ambito metaforico del naufragio è stato interamente occupato dalla nuova emergente realtà storica contro l’impegno vivente” (1997, 67). Una visione che, sia pure in termini diversi, non è troppo lontana dalla lettura sintomatica applicata da Zizek.

3. “Fuor del pelago a la riva”

La metafora blumenberghiana ha però un vantaggio innegabile: è una metafora a due termini, che non descrive lo stabilirsi di un’icona, ma lo stabilirsi di un tipo di relazione, di una fenomenologia dello sguardo. Il problema, in pratica, non è solo di capire che cosa rappresenti l’affondamento del ‘Titano inaffondabile’, ma anche chi sia lo “spettatore di naufragi” per eccellenza.

Si tratta di una figura soggetta a evoluzioni storiche, come ha appunto dimostrato Blumenberg, la cui fortuna ricorre sempre in epoche crisi cognitiva ed etica di fronte a una catastrofe percepita come imminente. Anche noi viviamo in un’epoca simile, come testimonia il suo reimpiego per definire la funzione dell’intellettuale (e rimando a considerazioni fatte altrove sul recente libro di Raffaele Liucci), e come testimonia l’altro genere di fotografie e icone su cui vorrei soffermarmi.

Immagini virali, spesso condivise su social network e fonte di sdegno condiviso; immagini in cui – per fortuna — non si contempla la furia della tempesta o il panico o nemmeno la propria impotenza, ma la traccia , depotenziata e apparentemente inoffensiva, dell’evento; il relitto, ciò che resta della catastrofe. Beati, e quasi ipnotizzati dalla sua monumentale bellezza. Anche se con le dovute differenze – perché in esse vi è stupido esibizionismo e narcisismo – queste immagini sembrano almeno in parte avvalorare l’ipotesi espressa da Beuvelet sul modo in cui ci definiremo « spettatori » della Costa Concordia negli anni a venire :

In Francia, dunque, ci ricorderemo di questo naufragio a partire dalla nostra relazione di spettatori sulla terra ferma che guardano una  alla , e non come passeggeri che cercano l’uscita in preda al panico, né come voyeurs che guardano gli altri mentre tentano di scappare…. La Costa Concordia, contrariamente al Titanic rivisto da James Cameron, non sarà il luogo del panico totale, ma un bel relitto adagiato sotto la luna. E noi la contempleremo come dei semplici curiosi innocenti, giunti dopo la tempesta a godere della visione del naufragio.

Che la visione del naufragio sia oggetto di godimento, lo prova  la dedizione con cui artisti e produttori di immagini ripropongono le immagini della catastrofe: pittori di naufragi à la Turner, fotografi professionisti, photoshoppers casalinghi, tutto alimenta la nostra estasi di fronte alle rovine – oggi più che mai tossiche e deturpanti – della nave che affonda.

Vorrei chiudere questa riflessione su un’immagine diversa, che incarna la stessa posizione da un punto di vista “critico”.  Si tratta di un dipinto francese di primo Ottocento. L’immagine (che non riproduco per questioni di copyright, ma che potete vedere qui) rappresenta una nave in tempesta, sulla quale un uomo assiste alla potenza dei marosi facendosi legare all’albero maestro della nave.

L’uomo in questione è Joseph Vernet (Avignone 1714 – Parigi 1789, due date che già sono un sintomo quelle), ed è uno dei principali pittori di paesaggio del XVIII secolo, specializzato fra l’altro in rovine, marine e naufragi. Il quadro è stato dipinto dal nipote Horace Vernet, si intitola Joseph Vernet attaché à un mât étudie les effets de la tempête ed è conservato al Musée Calvet di Avignone. Il quadro rappresenta la trasposizione pittorica di un episodio biografico testimoniato da varie fonti e successivamente diventato un luogo comune della cultura pittorica di primo Ottocento. Secondo la ricostruzione dello storico dell’arte George Levitine, è proprio la mediazione pittorica del nipote (a propria volta esponente di rilievo della pittura napoleonica) a riguadagnare fama e reputazione al nonno, le cui quotazioni artistiche erano inevitabilmente scese col mutare delle mode.

L’episodio diventa così un simbolo, ma solo a patto di modificarne drasticamente la cornice di ricezione. L’immagine di Joseph Vernet legato tra i flutti passa infatti a designare due atteggiamenti molto diversi in breve tempo: dall’esaltazione dell’artista borghese o del “curioso” (per riprendere i termini di Beuvelet), che decide di osservare la natura sul modello pliniano dello scienziato-eroe, si passa all’icona dell’artista romantico che si espone volontariamente al pericolo pur di interpretare fino in fondo la propria missione artistica (Levitine 1967, 99-100).  Ad aggiungere ulteriori risonanze all’episodio, sta il fatto che – come d’altra parte Blumenberg rileva – la metafora del naufragio appartiene alla retorica della Rivoluzione Francese, secondo cui il vero simbolo di morte è la bonaccia (la stabilità che uccide la politica rivoluzionaria), mentre la tempesta, incarnazione della Storia, rappresenta il rischio da correre se si vuole produrre un cambiamento. E se guardiamo le date di nascita e di morte del pittore ivi ritratto (1714-1789), non ci stupisce che questa immagine si sia caricata di valori affini alla prospettiva utopica della Rivoluzione.

Per noi che la osserviamo all’alba del nuovo millennio, all’indomani di un nuovo naufragio, l’immagine di Joseph Vernet legato all’albero della nave mantiene una sostanziale ambivalenza: ci riporta allo scacco illuministico giocato da Ulisse alle sirene, figura del coraggio di un’arte disposta a guardare in faccia la catastrofe, ma è allo stesso tempo il simbolo dell’impotenza degli artisti, costretti a rimanere spettatori di un dramma in cui non hanno parte. Ed è, ancora, un’immagine ambivalente rispetto al nostro sguardo sulla storia, stretta com’è tra il rischio di un utopismo chiuso, che restringe lo sguardo a ciò che si sa già come vedere (il pittore che diventa personaggio del proprio quadro) e il potenziale liberatorio di un messianismo capace di orientare la nostra azione a un futuro successivo alla catastrofe. Il naufragio può dunque diventare una dichiarazione di principio sullo stato delle pratiche artistiche, quasi che, per l’artista (e, per tralsato, l’intellettuale o lo scrittore) non fosse possibile rappresentarsi se non in rapporto alla catastrofe: stretto per sempre tra l’impossibilità di agire sull‘evento (ciò che altri hanno classificato come “inesperienza”), o, all’estremo opposto, l’obbligo di farsi spettatore fino alla morte. Ed è proprio inserendosi nella figura e rifiutando di “restare a riva”, che il pittore può produrre uno sguardo auto-inclusivo sul proprio tempo: una circolarità artistica che tende, almeno idealmente, a spezzare l’incanto della Medusa.

Disclaimer: le traduzioni dal francese e dall’inglese sono mie. Sono costretta a leggere il testo di Blumenberg  nella traduzione inglese di U of Chicago Press del 1997:  trattandosi di una traduzione da una traduzione, quel passo potrebbe contenere errori e inesattezze di cui mi scuso.

Credits: Grazie a Flavio Pintarelli per aver condiviso l’analisi di Olivier Beuvelet, altrimenti non mi sarebbe mai capitata tra le mani.

lo scrittore, il futuro, la speranza. un talk di william gibson

In a spasso tra i libri, attitudine popular, canadian bacon, this is the end of the world on gennaio 12, 2012 at 11:27 PM

Si parla di fine del mondo e la sala ride. Succede quando l’autore di fantascienza che, per molti, è semplicemente colui che “previde Internet” invita la platea a non attendersi risposte, programmi politici o soluzioni da uno scrittore. Un autore di genere che invita il pubblico a non prenderlo sul serio, e ne viene puntualmente obbedito: cose che succedono solo a Toronto, forse l’unico angolo del globo dove ancora si nasconde, ormai braccato, un po’ di postmoderno.

A conversare con William Gibson, alla Toronto Reference Library, c’è Robert J. Sawyer, e l’incontro diventa subito un “confronto” amichevole tra due pesi massimi della fantascienza nazionale – anche se, per la verità, Gibson è nato in South Carolina (ma non lo dà a vedere) ed è emigrato in Canada negli anni ’60 per sfuggire al draft.

Gibson presenta la sua ultima opera, Distrust That Particular Flavor, una raccolta di saggi pubblicati nel corso della sua attività. Scritti d’occasione o “fallimenti”, come l’introduzione mai consegnata a La macchina del tempo di H. G. Wells («era troppo personale, parlava di me e non di Wells»), per tutti gli scritti Gibson confessa di sentirsi a disagio: si tratta di violazioni all’unica regola che abbia mai davvero osservato, quella di scrivere solo fiction. Eppure l’aspetto autobiografico (che, fra tutti i registri della non-fiction, è quello verso cui l’autore si dichiara maggiormente in imbarazzo) affiora spesso nel corso della conversazione, per esempio quando Gibson fa risalire le origini della propria fascinazione per il genere a un’infanzia costellata di fantascienza, sia scritta, sia narrata dalle immagini (video, packaging, fumetti).

L’intera conversazione è ingombra dei molti futuri che le precedenti generazioni si sono lasciate le spalle. Si va dalla fantascienza anni ‘40 (ancora legata a doppio filo alle memorie della guerra appena combattuta) al terrore nucleare degli anni ’80 («è incredibile la rapidità con cui l’abbiamo dimenticato»). Del resto, ci dice Gibson, la fantascienza parla sempre del particolare futuro dell’epoca che l’ha prodotta: non c’è futuro più credibile di quello che viviamo, o che abbiamo già vissuto. A titolo di esempio, lo scrittore riporta le invenzioni del suo libro più famoso, le cui strutture socio-economiche sono una Reaganomics portata alle estreme conseguenze («a Reaganomics with volume turned 11») e la cui organizzazione malavitosa è modellata sul sottobosco criminale d’epoca vittoriana, col suo “apprendistato” e le sue “gilde”.

In questa rassegna di futuri arrugginiti, la tecnologia è sempre l’elemento dominante: “i cambiamenti culturali sono una conseguenza di quelli tecnologici”, afferma Gibson, quasi riecheggiando McLuhan. E ancora, il padre dello steampunk prende ad esempio l’invenzione del motore a due tempi (1881) per dimostrare come nel nostro mondo la tecnologia (intesa come applicazione concreta, avulsa da qualsiasi riflessione sulle sue possibili conseguenze) prevalga su qualsiasi regolamentazione e normatività.

Ma a chi gli chiede se l’avvento dello sprawl sia inarrestabile, o come salvarsi dalla nuova minaccia apocalittica del riscaldamento globale, Gibson risponde col rifiuto di ruoli messianici e salvifici. Così come rifiuta l’etichetta di autore distopico: «I miei lavori sono pieni di ottimismo. Negli anni Ottanta, pensavamo che il mondo fosse sull’orlo dell’olocausto nucleare, eppure io ho deliberatamente scelto di ambientare Neuromancer in un continuum dove ciò non fosse accaduto», dichiara scatenando l’ilarità generale. Ma lo scrittore è velocissimo a riportare il silenzio in sala: «molta gente oggi vive – e trascorrerà la totalità della propria breve e miserabile vita – in condizioni di gran lunga peggiori di qualsiasi “distopia” io possa mai aver immaginato». E conclude, dopo una pausa: «La vera distopia è proprio questa».

Una scrittura consapevole, insomma, della propria distanza dalla realtà, e poco incline a trasformarsi – malgrado l’insistenza di chi la vorrebbe futurologia a tutti i costi – nella promessa di una salvezza o nello spettacolo di un vaticinio. Perciò, al ragazzo che, un po’ enfaticamente, gli chiede di dare alla sua generazione qualunque cosa utile a sopravvivere, Gibson replica: «Sono uno scrittore. Tutto quel che posso darti è un po’ di speranza».

enjoy! (finché dura)

In attitudine popular, cinema, generazioni, this is the end of the world on dicembre 10, 2011 at 8:38 PM

Questa recensione è uno spoiler, nel senso che oltre a togliere ogni possibile dubbio sul finale del film di cui parlo Melancholia (2011), ne rivela anche diversi episodi di rilievo. Ma a voler essere rigorosi, il film è in partenza uno spoiler di se stesso, dato che anticipa il proprio finale e le proprie sequenze salienti nelle spettacolari e nelle sequenze d’apertura, dei veri e propri tableaux vivants che raffigurano la Passione del Mondo in slow motion, stazione dopo stazione. È lo stesso Lars von Trier, del resto, che ritiene necessario rivelare da subito la conclusione (“una specie di lieto fine”, come la definisce non senza una notevole dose di ironia) per evitare che il lettore sia distratto dalla suspence:

 Indeed the ending was what was in place from the outset when he started to work on the idea of ‘Melancholia’, just as he immediately knew that the audience needed to know it from the first images of the film.
«It was the same thing with ‘Titanic‘,« he says as he assumes his favourite interview pose, lying on the faded green cushions on his exuberant couch, arms flung over his head. »When they board the ship, you just know: aw, something with an iceberg will probably turn up. And it is my thesis that most films are like that, really.»

Da Longing for the End of All, intervista di Nils Thorsen (leggibile per intero qui)

Trattando della “fine del mondo”, Melancholia è facilmente ascrivibile alla categoria della fantascienza. Eppure verrebbe voglia di far proprie le riserve che Margaret Atwood, nel suo recentissimo In other worlds (Signal 2011), esprime sulla propria opera, dichiarandosi creatrice di mondi e di finzioni, ma non di finzioni “scientifiche”. Così anche Von Trier, che si astiene dal giocare con i registri della verosimiglianza scientifica e della verità, ma prende la visione dell’apocalisse a fondamento di una riflessione sull’uomo e sulla fragilità della sua psicologia.

Tuttavia, il fatto che un film come questo si occupi della fine del mondo esprime qualcosa d’importante sul nostro presente. In primo luogo, racconta della nostra percezione di civiltà al collasso, la nostra ansia apocalittica (tema esplorato da molti in questi anni, compreso un autore come Zizek nel suo Living in the end times, Verso 2010, ora disponibile in italiano per i tipi di Neri Pozza). Quasi che dall’“Enjoy!” di capitalistica e post-moderna memoria sia ormai indispensabile passare a un “Enjoy it while it lasts!”, consapevoli che non durerà ancora a lungo. Non è un caso, dunque, che Melancholia rappresenti la fine del mondo come un’accettazione – risparmiandoci le corse contro il tempo alla Armageddon, le astronavi in fuga verso l’ignoto e le immancabili derive complottiste della fantascienza apocalittica propriamente intesa. La fine del mondo è già tra noi, e non è qualcosa che sia in nostro potere impedire.

In secondo luogo, colpisce il fatto che la fine del mondo sia narrata non con le modalità di un “dramma fantascientifico”, ma con quelle di un dramma familiare (e l’ispirazione dichiarata è a Le serve di Genet). Certamente questa scelta ha origine nella genesi stessa del film – la volontà di Von Trier di esplorare un aspetto sociale della malattia, il fatto che “i depressi siano più calmi nelle situazioni di emergenza perché hanno già delle aspettative negative sul futuro”. I depressi vivono in una condizione che è già un’apocalisse permanente – tanto più ora che mezzo mondo occidentale sembra vivere in una sindrome da stress post-traumatico. L’etica dei depressi – impietosamente dimostrata da una sequenza del film – è che il mondo in cui viviamo è già cenere. Nessun inferno può essere peggiore di così. Ed è certamente quel che prova Justine (interpretata dall’incredibile Kirsten Dunst)– nome ispirato alla creatura di Sade, ma anche evocativo di Juno, Jupiter, e della giustizia personificata –, trasfigurata in un simbolo sotto la fredda luce dell’altro pianeta. Ma in questo contesto, Melancholia diventa anche una parabola sulla nostra assenza di misura e il nostro antropocentrismo “I promise it won’t hit Earth”, dice il personaggio di John  (interpretato da Kiefer Sutherland) a Claire, come  le traiettorie degli astri dipendessero dai calcoli degli scienziati. E da questo punto di vista, il grande merito del film è la sua capacità continua di scivolare tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra macrocosmo e microcosmo. Ed ecco che una patologia percettiva (la mancanza di empatia sociale, l’incapacità di percepire le realtà intermedie) permette di raggiungere un risultato filosofico: restituire allo sguardo quell’extra-mondità che sola può guarire la nostra «démesure».

Melancholia è un film troppo bello e troppo brutto allo stesso tempo. È un film “brutto”, che non scorre, le cui siderali lunghezze ci mettono a disagio, un film sconnesso, fatto di due parti asimmetriche e in collisione – come i pianeti di cui narra, come le due sorelle Justine e Claire, come il macrocosmo e il microcosmo chiamati a specchiarsi l’uno nell’altro. Ma è anche un film eccessivamente bello, estetizzante, che usa la lucida compiutezza dell’immagine per dire ciò che non si può dire – fino al nero che conclude il tutto: il non-detto come unico spazio per l’assenza di futuro. E il futuro è un registro ambiguo, a metà fra l’onirico e il trasfigurato (i due modi con cui la narrativa, filmica o letteraria, riesce a dire la catastrofe, ad affrontare, mediante la trama di infiniti “mondi possibili”, la sfida di dire il nostro “poterci non essere”, la radiazione di fondo emessa dal nostro possibile morire.

Non esistono piani intermedi tra quello cosmico (dove il tempo eccede qualsiasi possibilità di immaginazione umana) e quello dei piccoli conflitti interni all’individuo (conflitti tra la rappresentazione sociale e il dolore esperito dall’individuo, conflitti tra membri della stessa famiglia, ma anche conflitti tra semantiche, tra significati apparenti e implicazioni latenti). I personaggi obbediscono a impulsi propri, bambole meccaniche di un universo chiuso e auto-alimentato. Un universo in cui non occorre provvedere alle necessità materiali, in cui l’onnipresenza del denaro è segnalata in primo luogo dalla sua invisibilità; come una corrente segreta e sotterranea, il denaro e il lusso, uniti a una raffinatissima e decadente assenza di gusto, modellano i rapporti tra le persone, si sostituiscono ai flussi di empatia.

Eppure, sembra dirci il film (soprattutto alcune inquadrature, come la scena in cui due globi di marmo, accostati tra loro, suggeriscono l’impatto delle sfere celesti) l’immensità del nostro cosmo è tutta racchiusa nel nostro microcosmo, se solo fossimo capaci di leggerne le nervature e le simmetrie; e davvero la fine del mondo ci colpirà così, inconsapevoli fino all’ultimo, persi nei giardini segreti della nostra anima mentre tutto intorno il mondo si prepara a esplode e ritorna al suo silenzio primigenio.

beware of bloggers. riflessioni su “contagion” [21 settembre 2011]

In attitudine popular, cinema on novembre 16, 2011 at 5:22 am

Fate attenzione ai blogger. Si presentano come indipendenti, interessati solo alla verità o alla corretta informazione (che suona più laico). Ma chi vi dice che siano davvero indipendenti come sembrano? Come fate a fidarvi delle loro motivazioni?
Potrebbe essere questo, in estrema sintesi, il messaggio più ambiguo di Contagion, ultima fatica di Steven Soderbergh (già regista di Sesso, bugie e videotape, Che e Solaris), presentata pochi giorni fa a Venezia e già distribuito da tempo nelle sale nordamericane.

Contagion è un film a metà fra il thriller, la distopia e – almeno per come è pubblicizzato e per un paio di scene – l’horror. Appartiene in pieno, dunque, a quella classe di narrazioni spurie e proliferanti che sembrano essere oggi il brodo di coltura per il ritorno in grande stile della fantascienza, non più alle prese con alieni e guerre interstellari ma con le complicazioni politiche di casa nostra, cioè l’impero e le sue periferie.
È un film ben fatto, a volte un po’ disconnesso tra le sue parti ma nell’insieme equilibrato, pure troppo: non ci sono orrori esagerati, dopo le prime scene mozzafiato la tensione si smorza abbastanza presto, a volte diventa né carne né pesce, e per raccontare di una storia in cui muoiono circa 25 milioni di persone (alcune interpretate da attori di spicco come Gwyneth Paltrow), non è nemmeno particolarmente tragico.
Non mi soffermo sulla trama, perché si tratterebbe di uno spoiler per chi non ha ancora potuto vederlo. Mi limito a dire che ci sono delle lievi somiglianze, non evidenti, sia con The Omega Man (1971), sia con il testo di Matheson che l’aveva ispirato (l’immunità del protagonista, chiamato a combattere per la salvezza della propria figlia, o il ruolo vitale giocato da un’infezione dei pipistrelli).

Come ogni film distopico, Contagion è un film politico, che parla della società e ne sperimenta la tenuta alla luce di un trauma potenziale. Politico non vuol dire propagandistico: e infatti il valore del film (se di “valore” si può parlare) sta nella sua ambiguità, nel lasciare un sapore dolce-amaro che lascia alla fine della visione.
È continuo il gioco con i simboli e le vicende storiche più o meno recenti degli USA, secondo una modalità di citazione (e appropriazione) di fatti storici tipici del genere. Così, ad esempio, per la somministrazione del vaccino si recupera lo stesso sistema di “lotteria” con l’anno di nascita che fu impiegato negli ultimi anni della guerra del Vietnam col ritorno al draft (chiamata di leva obbligatoria), scena madre di tanti film — penso ad esempio alla scena di Ragazze interrotte, dove la protagonista assiste all’estrazione della data di compleanno del suo fidanzato durante la degenza nell’ospedale psichiatrico.

Fedele specchio dei tempi, l’unico luogo che davvero conta assieme agli States è la Cina: dato che deriva in parte dalla struttura realistica che gli sceneggiatori hanno impresso allo sviluppo della pandemia (ispirata alla SARS), ma che sembra anche dare la misura di mutati equilibri storici. Di fronte alla minaccia apocalittica, esattamente come in The Watchmen, le potenze debbono coalizzarsi. E al posto dell’URSS, ovviamente, troveremo la Cina. Sempre che l’altra siano ancora gli States.
Contagion racconta insomma della lotta degli Stati Uniti per continuare a rappresentarsi come l’ago della bilancia in un mondo che cambia, ma anche della sua lotta interna per non perdere completamente ogni residuo di umanità. La retorica del “caos”, del disordine inevitabile in strutture sociali alla fine dei tempi; in cui alcuni danno il meglio di sé, ma i più si scoprono ladri, profittatori, stupratori ed assassini.

È dunque un film mediamente “imperialista”, sia pure con ambizioni progressiste, tant’è vero che rappresenta negativamente alcuni degli attori politici di destra più importanti in questi anni. I militari, per esempio, più attenti a scovare potenziali trame terroristiche che ad arginare la pandemia («You don’t need to weaponize bird flu. The birds already do it for us», esclama a un certo punto l’epidemiologo Ellis Cheever, interpretato da Lawrence Fishburne, indispettito dalla mancanza di comprensione dei suoi ottusi interlocutori ancora caccia di streghe).
E, sempre nella prima metà della pellicola, dietro al gruppo di donne che contestano l’apertura dei primi ospedali da campo sulla base di considerazioni “economiche” (non coi nostri soldi, in sostanza), è facile riconoscere le argomentazioni dei tea-partiers, che nella spesa pubblica (garanzia dei servizi e dei diritti essenziali a tutti i cittadini, cioè “a tutti gli altri”) vedono solo un odioso dispendio di denaro.

Parlando dell’attualità, tuttavia, la vera parola chiave è, qui, overreaction. Una dinamica simile, del resto, a quanto accade nella realtà, quando i Repubblicani (che gestirono con una noncuranza e una superficialità criminali l’emergenza Kathrina) si soffermano sulla reazione alla tempesta Irene e accusano i Democratici di una reazione “esagerata” (in primis per le tasche dei contribuenti), salvo invocare lo spettro dei flagelli divini….
Mentre si propongono le immagini della devastazione sanitaria e sociale creata da questo morbo, è continuo infatti il parallelo con i casi della Sars o della H1N1, considerati da molti episodi di panico gonfiato ad arte per garantire gli interessi dei grandi marchi farmaceutici.
Meglio reagire in modo esagerato che lasciare la gente a morire, ripetono in continuazione gli epidemiologi e i militari, nel corso del film. Da qui a riconsiderare i “falsi allarmi” di Sars e h1n1, il passo è breve. Allora esagerammo, è vero: ma se non avessimo fatto niente?
In altri termini, se dobbiamo scegliere tra il disinteresse ostentato dai “falchi” verso chi non appartiene alla loro cerchia (religiosa, economica, sociale che sia) e il governo del panico, tanto vale scegliere quest’ultimo. Poco importa che sia proprio governo del panico la più importante arma di cui dispongono i “falchi” per aumentare il proprio potere e la propria credibilità.

E che non ci sia scampo, rispetto al governo del panico, lo dimostra anche la storia dell’altra “infezione” narrata dal film, molto più pericolosa della malattia letale: il contagio del panico e della disinformazione che infetta le menti di chi si affida alla rete. Una delle tante sottotrame, infatti, riguarda il personaggio di Alan Krumwiede, caricatura di pseudo-giornalista complottista cui Jude Law presta un’interpretazione sopra le righe e decisamente poco verosimile. Con una qualche credibilità, il personaggio di Krumwiede sembra motivato più da risentimento verso le redazioni ufficiali (colpevoli di avergli sbarrato la porta) e da esibizionismo che da interesse personale, anche se quest’ultimo prevale. L’unico vero cattivo del film, insomma, è un blogger, che semina il terrore e infonde fiducia in palliativi assolutamente inutili, senza nemmeno le attenuanti concesse agli altri personaggi che si macchiano di corruzione: il blogger non cerca di salvare la vita dei propri cari, non cerca di sconfiggere una malattia letale costi quel che costi, è mosso solo dalla vanità per i suoi 12 milioni di click giornalieri.

Attenzione, sembra dire, il film: i militari saranno ottusi e conservatori, ma hanno pur sempre a cuore l’interesse nazionale e, se accade qualcosa di davvero grave, conviene averli in pretty good shape. Capillari, operativi e forti. Fate attenzione, dice ancora Soderbergh: I gruppi farmaceutici controllano l’informazione mainstream, ma chi vi dice che non possano aprire, con le stesse tenaglie, le menti e le bocche dei cosiddetti media indipendenti? “Chi c’è dietro i dietrologi?” potrebbe dunque essere la domanda (in parte anche legittima) di un film che però ha solo rovesci. Davvero una triste morale per tempi che avrebbero bisogno di cambiare.