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il ritorno delle tigri della malaysia [4 maggio 2011]

In a spasso tra i libri, canadian bacon, recensioni di recensioni on novembre 16, 2011 at 5:08 am

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Agli appassionati italiani di Paco Ignacio Taibo II verrà forse spontaneo leggere la sua ultima fatica (il seguito salgariano “non autorizzato” El retorno de las Tigres de la Malaysia) alla luce del confronto con l’autore italiano che gli è più vicino, Valerio Evangelisti: una vicinanza che non si esprime solo nel progetto di recupero politico della paraletteratura e, specialmente, della narrativa d’investigazione, ma in una venatura insurrezionale che attraversa i loro lavori.

Fin dalle prime pagine, ho perciò avuto fortissima la sensazione di trovarmi in una di quelle ibridazioni – tipiche appunto dell’autore nostrano – tra romanzo storico (specialmente messicano), avventura piratesca stile Tortuga e orrore alla Black Flag. Questa sensazione trasmettono, ad esempio, le immagini di guerra dei primi capitoli, in cui misteriose nubi verdi accompagnano l’orrore dispiegato da un progetto imperialista, e ‘cani’ mai visti prima terrorizzano una popolazione incline alla leggenda e alla fantasticheria. Ma non c’è traccia di zombi e di mostri, in questa narrazione, in cui l’orrore non appartiene alla fantasia comune ma alla razionalità scientifica della cultura borghese ottocentesca e al suo ‘civilissimo’ imperialismo. Di simili trompe-l’oeil narrativi è intessuto l’intero romanzo, ricco di reti e labirinti in cui agli stessi eroi salgariani, ormai invecchiati, piace indugiare.

El retorno de las Tigres de la Malaysia è compiutamente e consapevolmente una macchina narrativa, un ordignoJules Verne e a Edgar Allan Poe, a Conan Doyle e alle serie dei romanzi di Karl May – così popolari, se non sbaglio, anche durante il nazismo: ma l’eroe più potente è forse quell’anonimo dal corpo istoriato, Histórias, che entra nelle ultime pagine del romanzo come un muto omaggio all’universo dei fumetti.

In questa esaltazione del racconto sta la forza, ma anche il limite, del racconto di Taibo, che denuncia lo scacco della propria narrazione ma ne fa derivare anche la propria inesauribile energia: di qui l’impossibilità di concludersi, chiaramente l’effetto di questa struttura a incassamenti imperfetti, o narrazione a spirale. Il racconto continua dove finisce l’azione, ci suggerisce il romanziere, e viceversa: ma non c’è il rischio che il racconto subentri all’azione, in un’appagante quanto sterile auto-celebrazione?

Alla luce di questa ambivalenza si comprende la poetica della duplicità che soggiace all’intero racconto, in cui ogni segno porta il marchio del proprio tradimento. Il lettore è costretto a inseguire una nave di carta che reca il nome della menzogna, La Mentirósa. Il vero scarto che Taibo II propone è proprio questo allargamento di orizzonti, in cui ogni cosa è insieme se stessa e qualcos’altro: così la bandiera messicana, da lontano, diventa quella dell’Italia (e sono molti i luoghi in cui, forse omaggiando l’inventore dei suoi “eroi”, Taibo II gioca tra le omofonie apparenti dello spagnolo e dell’italiano), il mito ottocentesco della tecnologia è adoperato tanto in funzione rivoluzionaria quanto contro-rivoluzionaria; l’unico “europeo” della nave diventa, egli stesso, avvocato dei colonizzati; più in generale, l’alleato diventa nemico e il nemico alleato, in un continuo gioco di labirinti e trappole destinate a chiudersi l’una sull’altra.

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Ora, se fosse stato pubblicato negli anni in cui Taibo II ne aggrediva la composizione (nel 2000-2001 a Città del Messico: tempi e luoghi di lotte durissime, trasversali alle più diverse espressioni sociali), non avremmo esitato a definirlo un romanzo “post-moderno”, per il suo uso di strutture cognitive piegate a funzioni narrative, per il suo uso della citazione, per questa poetica della duplicità, per la sua riflessione sull’iconografia e la narrazione popolare, presente anche in altri lavori della decade or ora conclusa (La misteriosa fiamma della regina Loana di Eco, per esempio). Per non parlare di quella nuova forma di ‘intertestualità’ genettiana adombrata dall’etichetta della “collaborazione involontaria dell’Autore”…. Labirinti e tigri di carta non devono però ingannarci: l’ambivalen

za è narrativa, non.ideologica. Le tigri sono “anti-imperialiste” senza ombre e confusioni e nella loro geografia (costruita a tavolino e per fonti bibliografiche proprio come quella di Salgari) non si scrive più la voglia di ‘esotismo’ di una generazione impiegatizia proto-fascista, bensì la denuncia di un progetto di rapina e oppressione durato

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secoli, su una mappa di riferimenti che va dalla sanguinosa repressione della Comune di Parigi alle guerre cinesi dell’oppio. La ‘duplicità’ diventa allora il mezzo necessario per liberare energie potenzialmente ‘progressiste’ in personaggi come quelli di Salgari, che non erano certo “anti-imperialisti” all’origine (anzi…) ma che, nella loro eccedenza, hanno finito per diventarlo, almeno nell’immaginario di quattro generazioni di lettori.

Da questo punto di vista, la scelta del rallentamento estremo, della ‘rinuncia all’azione’, concentrata in pochi inevitabili momenti, e l’enfasi sempre più forte sulla natura meta-narrativa del romanzo, non è solo una scelta anti-retorica: è una scelta politica, forse l’unica possibile al giorno d’oggi.

In questo modo Paco Ignacio Taibo incontra il passaggio – a mio avviso diffuso nelle trasposizioni degli ultimi vent’anni – dall’enfasi sul ribellismo dell’azione alla potenza liberatrice dell’immaginazione letteraria. Un passaggio che la piena acquisizione delle poetiche post-moderne ha reso possibile, rischiando però di annichilire l’energia e la potenza delle narrazioni originarie, facendone una figurina d’epoca buona al massimo per farci il découpage. Anche senza scomodare l’elefante nella stanza (la trasposizione televisiva di Sergio Sollima, di cui non parlo e non voglio parlare), è evidentissima la distanza e la mutazione di valori che corre tra l’attuale passione per i vecchi eroi e supereroi della nostra (o dell’altrui) infanzia e le trasposizioni salgariane degli anni ’60 (penso a quella radiofonica del 1969, o a quella, poi rimasta inedita ma realizzata negli stessi anni, di Mino Milani e Hugo Pratt, che nella voce targata EIAR e nella dinamica pulizia di quello stile fumettistico trovavano un equivalente dell’azione salgariana) ; per non parlare di quel capolavoro dimenticato che fu l’adattamento teatrale di Aldo Trionfo e Tonino Conte nel 1972, un grande atto di denuncia dell’avventurismo coloniale e dell’esotismo nevrotico della Belle époque italiana, con chiarissimi riferimenti alla pesante cappa del tradizionalismo educativo italiano (di quello spettacolo scrive cose illuminanti Franco Quadri, nel suo L’avanguardia teatrale in Italia; ne è stata fatta di recente una ‘ripresa’ parziale al genovese Teatro della Tosse, proprio in coincidenza con le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia).

Con la sua sapienza narrativa, Taibo II disinnesca la retorica roboante e proto-fascista, ma allo stesso tempo usa la precisione storica e la sua immediatezza di narratore popolare per tenersi lontano dall’intellettualismo di un puro gioco di ‘riscritture’: parla chiaro, in tal senso, l’orrore dei suoi “carnai” – che arrivano tardi nel romanzo ma non hanno più niente di metaforico o immaginario: macellerie ispirate alla cronaca di guerra più che allo splatter. Mantenere viva l’urgenza, e il piacere del racconto senza dimenticarci il puzzo e l’orrore dei cadaveri: è questo, più ancora che l’invito alla ‘rivoluzione’ permanente, il vero valore della continua ripresa di icone come Sandokan e Yanez, e del loro racconto infinito.