Le famiglie infelici, contrariamente a quel che scriveva Tolstoj, si assomigliano tutte, almeno per un tratto: ogni discussione finisce per riproporre lo stesso pattern, arrivando alla stessa inevitabile conclusione (la litigata) per le stesse imperscrutabili vie (qualsiasi argomento di conversazione all’apparenza innocuo). Di recente, provo una sensazione analoga quando mi aggiro per la blogosfera italiana, o sulle pagine di certi forum simili a stagni, in cui il sassolino lanciato da qualche post o commento sgradevole solleva ondate tanto potenti quanto inutili. Certo, uno potrebbe sempre dedicarsi a letture più edificanti, per esempio quelle che ho di recente suggerito ai miei lettori; ma a lasciarmi basita non è il contenuto di questo o quello “scazzo” (excuse my French!) ma il fatto che, senza nemmeno dover troppo scavare, si assomigliano tutti.
Un paio di giorni fa, sul sito italiansinfuga, una lettrice ha lasciato un commento astioso alla testimonianza di una giovane odontoiatra alle prese con un costoso master in Inghilterra. Ne è nato un piccolo parapiglia, con risposte stizzite di altri lettori – alcune del genere “i soldi non fanno la felicità”, altre, secondo me molto più condivisibili, del tenore “alcuni si fanno un mazzo e il Master se lo pagano anche lavorando”. La discussione è andata avanti finché la specializzanda in questione non ha chiarito di fronte al tribunale “internettiano” la propria situazione economica, frutto di sacrifici, risparmi, borse di studio ottenute per merito e, dulcis in fundo, di un consistente indebitamento (pratica assai comune nel mondo anglosassone). In capo a 3-4 giri di commenti, i vari Internauti hanno quindi stabilito che appartenevano tutti alla stessa categoria (quella della gente che lavora, qualunque cosa ciò voglia dire) e, soprattutto, che nessuno di loro apparteneva all’odiata tribù dei “figli di papà”, dei “parassiti” o degli “scansafatiche”. All’s well what ends well! Dell’episodio in sé non mi interessa granché, tanto meno di far dei facili moralismi: di questi tempi se anche uno fosse un nababbo, e invece di comprarsi yatch e pelliccia decidesse di spendere in istruzione, avrebbe solo il mio rispetto; e d’altra parte quando all’estero ci vai facendoti il mazzo, non c’è nulla di più deprimente che sentirsi dare dei figli di papà da qualcuno che parla a raglio. Quel che invece mi interessa, è la dinamica dello scontro, la facilità con cui il linciaggio del presunto “parassita” si genera ed è poi dirottato altrove – senza che questo induca a una riflessione sulla logica che produce questo tipo di scontri, più frequenti di quanto si potrebbe credere.
Vediamo cosa succede quando da un blog privato, che deve la sua autorevolezza alle preferenze degli internauti, ci si sposta su un “blog d’autore” incluso in un canale di informazione riconosciuto e accreditato, come il sito del quotidiano La repubblica. Qui, il 16 giugno 2010, parlando dello sfruttamento delle “false partite IVA”, Riccardo Staglianò ha pubblicato la lettera di un “ventenne di buona famiglia, laureato” che sostiene di vivere “in completa povertà” (ma a casa con “la famiglia d’origine”) e sfoga la sua frustrazione per l’avvilente situazione da lui sperimentata, fra stage non retribuiti, lavoro non riconosciuto, assenza di guadagno dopo tanti anni passati sui libri. Anche qui gli risponde un coro di commenti stizziti, che accusano il giovane di “vittimismo” e di ‘razzismo’, spingendosi a metterne in dubbio la veridicità (come è possibile a vent’anni esser già laureato e aver un mare di stage alle spalle?, incalzano gli internauti, trasformandosi in novelli Sherlock Holmes). L’aggressività catalizzata dal j’accuse, anziché rivolgersi contro i “privilegiati”, si rivolge contro il suo estensore – non risparmiato dall’accusa di essere a propria volta un “fighetto”. Ancora una volta, il meccanismo della blogosfera si è azionato.
Anche in questo caso, a interessarmi è il pattern, non l’episodio in sé (il contenuto della lettera o il problema della sua presunta autenticità: di mestiere non faccio né il grafologo né il giudice, io). Perché ci azzanniamo a vicenda, passando più tempo a difenderci dall’accusa di essere dei “parassiti”, che a lottare per ristabilire dei parametri di decenza nel mondo del lavoro? Da questo punto di vista, la lettera dell’ex liceale milanese (così si descrive lui) è emblematica. Premetto subito che non mi è piaciuta, anzi, mi ha proprio irritato, per il suo narcisismo, per il suo vittimismo e per il suo classismo. Qualità che la rendono significativa, però, e ben rappresentativo del disagio profondo di un ceto medio sempre più impoverito: quel che costituisce forse uno degli elementi più destabilizzanti dell’attuale scenario politico italiano. Quella del giovane milanese, poi, è una lettera che mi turba profondamente, perché mi evoca una condizione quasi fraterna: razzismo a parte, è la lettera che avrei potuto scrivere io meno di un anno fa. Proprio per questo mi viene facile coglierne gli elementi principali: li conosco e li ri-conosco, ma al tempo stesso la distanza spazio-temporale mi spinge a coglierne le fallacie, elementi ricorrenti in gran parte del dibattito corrente. Io ne ho individuate 6, che elenco qui di seguito.
1) La sindrome della Piccola Fiammiferaia
Si tratta della descrizione iperbolica di uno stato di disagio economico percepito come “estrema povertà”: il non potersi permettere una maglietta nuova o un’uscita serale è equiparato al non aver di che vivere. Non intendo fare della facile ironia: una persona che “non guadagna”, di sicuro ricca non è. Una persona incapace di provvedere a se stessa, oltre ad essere un peso per sé e per gli altri, diventa presto un problema sociale. Se ad esser trasformata in un problema sociale non è una persona, ma un’intera generazione, siamo di fronte a qualcosa di ben più grave del semplice impoverimento dei ceti medi (che comunque rappresenta una situazione potenzialmente eversiva): siamo di fronte a una crisi del rapporto tra le generazioni, a una crisi della democrazia e dei “significanti condivisi”. Cominciando da quello del valore di scambio. Per molti giovani laureati e “masterizzati” (manco fossero dei CD-Rom), la barriera tra la povertà vera e quella percepita è costituita solo dal fatto di poter restare indefinitamente a carico dei genitori. Questa condizione fa sì che la “povertà” percepita non sia comunque assimilabile alla miseria, all’indigenza reale (quella di chi dorme per strada, per capirci). Ma trasforma quella definizione di “povertà estrema” (indossata così seriosamente dallo stagista milanese) in una metonimia sociale: la “povertà” è la parte che sta per il tutto, e nella fattispecie non nasconde più solo la percezione di un impoverimento di classe, ma la percezione di essere esclusi dai gangli sociali. La tranquillità economica che risulta dall’essere a “carico” di qualcuno (il fatto che i tuoi paghino le bollette del telefono, compreso l’ADSL o il wi-fi), infatti, non ha niente a che vedere con l’integrazione sociale. Mi spiego con un esempio concreto: in sociolinguistica, le casalinghe sono classificate secondo il reddito della persona da cui dipendono economicamente. Ma questa è una soluzione solo “burocratica”, che va bene solo ai fini di una ricerca scientifica. Non ci dice nulla della sua integrazione sociale. Di fatto, una casalinga “borghese” può avere anche più soldi da spendere di un operaio, ma un divorzio gestito male o una vedovanza improvvisa possono gettarla in mezzo a una strada dal giorno alla notte, facendola piombare in un’improvvisa condizione di insicurezza sociale. “Reale”, non solo “percepita”. Forse la perdita di quelle obsolete distinzioni di “classe” (cui sembra sostituirsi, nell’immaginario collettivo, l’imprecisa e squalificante nozione di “casta”), insieme all’infausta illusione di esser diventati tutti “borghesi”, ci rende oggi incapaci di distinguere le tante sfumature della “povertà”. Anche a rischio di renderci sordi al disagio vero (quello di chi perde il lavoro e finisce letteralmente in mezzo a una strada), e ciechi al nostro collettivo scivolare dal benessere all’assenza di prospettive, di sviluppo, di futuro.
2) Il curriculum di Superman (o di Wonderwoman),
ovvero la descrizione iperbolica del proprio lavoro, del proprio studio, delle proprie capacità. Questa può prendere due forme: alcuni enfatizzano sacrifici normalissimi come se fossero estratti di romanzi dickensiani (es. aver lavorato durante gli studi per non essere troppo di peso: per carità, esperienza assolutamente formativa e per fortuna sempre più comune, detto questo lavorare in miniera è un’altra cosa); altri si comportano come se aver studiato per 5 anni con buoni risultati fosse sinonimo di uno studio matto e disperatissimo leopardiano. Peccato che andare all’università non sia un “sacrificio”, ma un “privilegio”.
Credo che questa sindrome dipenda principalmente da due fattori: l’ansia di smarcarsi dall’accusa di essere “bamboccioni”, “parassiti” e via dicendo, e la volontà di assimilarsi all’invidiato mondo di quelli che “lavorano”. Si tratta della più triste prova di subalternità offerta dalla mia generazione, costretta a partire in contropiede e a rimanere sempre sulla difensiva. Per lo stesso motivo, forse, al “vogliamo tutto” degli operai di Balestrini si è sostituito un deprimente “non voglio mica la luna”, segno di un atteggiamento perdente, passivo e rinunciatario. La sindrome dickensiana, per un apparente paradosso, si accompagna spesso alla percezione della propria “indegnità”, all’insicurezza delle proprie capacità, o più prosaicamente all’ammissione di esser stati viziati (di qui la glorificazione di famiglie normalissime, presentate come eccezionali per il semplice fatto di aver mandato i figli a scuola). Anche questo disagio è reale, e non deve essere preso sottogamba: esprime il disorientamento di una classe che è stata illusa di avere “tutta la vita davanti”, e scopre di dover competere, in un mondo che si scopre improvvisamente globale, con persone molto più povere, disperate e determinate. Un disorientamento che il giovane “laureato milanese” esprime anche troppo bene, con quello che secondo me è una delle frasi più significative della sua lettera: “E’ dura durissima perché dalla vita penso di aver avuto tutto, e fino a qualche anno fa non mi è mai mancato niente.” In uno dei suoi commenti, invece si legge:
Non penso di essere l’unico in questa situazione, ma capisco i vostri dubbi e le vostre perplessità… anche i miei genitori se leggessero questa mia lettera li avrebbero e si chiederebbero: “Ma come ti abbiamo sempre dato tutto, non ti abbiamo mai negato niente, no?” C’è un problema di comunicazione tra generazioni, tra chi ha o ha avuto tutto (forse immeritatamente) e chi non ha niente!
La (s)valutazione dei lavori “manuali” o “umili” (termine, quest’ultimo, dalle sfumature moralistiche e vagamente cattoliche) costituisce una variante della sindrome e dei suoi sviluppi dialettici. Il laureato disoccupato o non pagato è infatti tacciato di arroganza e parassitismo per il fatto di non volersi adattare a lavori poco qualificati e non in linea coi propri studi, accusa dalla quale tenta di riscattarsi con un elenco di titoli degno di un cancelliere, o con il racconto dickensiano di cui sopra.
Da questo punto di vista, non stupisce che Sacconi goda di un elevatissimo indice di gradimento. Si badi che, peraltro, una buona quota di commenti scandalizzati non viene necessariamente da chi fa in prima persona lavori umili, o li ha fatti per mantenersi agli studi, ma tra chi “guadagna una barca di soldi”. Ok, ma siamo sicuri che lavorare e sfruttare il lavoro altrui siano proprio la stessa cosa?
Entrambi gli atteggiamenti, quello dello “studente” e quello del “lavoratore”, a ben guardare, nascono da una comune fallacia: continuare a considerare il “giovane’ in quanto figlio, o al massimo come uno scolaretto, e considerarne l’inserimento sociale come un premio – o una punizione – per il suo merito. Che poi, se ci si pensa, questa potrebbe essere una spiegazione dell’ossessione dominante per la meritocrazia. Come se il fatto di avere dei diritti dipendesse dalla tua eccezionale “bravura” di singolo e non dovesse essere inscritto in qualsiasi rapporto lavorativo degno di questo nome.
3) La rivincita di “Gianni”.
Alla glorificazione simil-leghista del lavoro manuale (ovviamente quello fatto dagli altri, e al massimo “coordinato” dal manager o dal capo-cantiere di turno), fa da contraltare un diffuso classismo, e di quella specie particolarmente irritante che sembra identificare la classe sociale con la classe nel senso di “aula scolastica”, o “ultima classe frequentata”. La propria superiore istruzione viene dunque a identificarsi con un proprio superiore diritto (il quale, poi, è quasi sempre frustrato nella vita reale). ‘Caspita’, è la domanda ricorrente, ‘come è possibile che io Pierino, avendo fatto il liceo classico, oggi guadagno meno del mio amico Gianni, figlio di operai, che è andato a far l’elettricista a 16 anni?’ A parte che la precarizzazione tocca tutti i settori e specialmente quelli meno garantiti (dai cantieri in su); ma comunque, porca vacca, che ragionamenti sono? Posto che questo non accade certo perché viviamo nel socialismo reale, ma perché il mercato del lavoro è regredito a livelli da medioevo in poco più di un decennio, chi l’ha detto che il titolo di studi debba garantire un surplus di diritti e di dignità? Chi costruisce la tua casa, chi lava il cesso del tuo ufficio, chi ti cambia la padella in ospedale non ha forse diritto a un trattamento equo e dignitoso? Da questo punto di vista, la lettera dell’ex-liceale milanese fa prudere le mani. L’equazione tra istruzione e classe è esplicita fin dall’inizio:
Ormai un posto di lavoro qualificato a tempo indeterminato a Milano equivale a una vincita al “Win for life”. Tutti, anche coloro come il sottoscritto che ha frequentato un noto liceo classico del centro di Milano, la cui frequenza un tempo era un vero e proprio status symbol o almeno indicatore di benessere.
Nel finale, poi, sembra che lo scandalo non siano le difficoltà sociali o lavorative di un gruppo di giovani, ma di un gruppo di ex liceali. Orgoglio di casta, appunto.
4) Tronisti e veline.
Tanto per cambiare, la colpa è dei “coatti”. Di quelli che guardano i reality, di quelli che lavorano con le mani, di quelli che i mille euro al mese li pigliano al mini-market ma siccome non hanno fatto il liceo, diamo per scontato che facciano un lavoro di merda. Al classismo si unisce lo snobismo culturale: una delle tante malattie senili della sinistra italiana, che la rendono incapace di organizzare un’opposizione culturalmente efficace al berluscoleghismo imperante. Non ho idea delle opinioni politiche del giovane milanese (anche se scrivere a “Repubblica” invece che al “Corriere” o al “Giornale” o al “Manifesto”, di per sé implica una determinata posizione), ma l’incomunicabilità, quasi a livelli di odio, tra chi ha studiato e chi guarda i reality è uno degli elementi che pone a maggior rischio la democrazia italiana. Ecco cosa scrive l’autore della lettera, in uno dei commenti:
Alcuni di questi che non hanno nemmeno il diploma, faranno anche lavori come l’operatore di fastfood, ma non perdono occasione per ripetermi quanto guadagnano (cifre che io non vedrò mai) o il fatto che abbiano il contratto a tempo indeterminato, uno addirittura uscendo una sera mi ha mostrato la sua busta paga con la quattordicesima per umiliarmi! È questa è gente che mentre stavo chiuso in casa a studiare latino e greco stava a bighellonare in giro con i motorini…. Scusate che lo dico ma a me con sti camerieri che si vestono come tornisti televisivi o come veline è passata da tempo la voglia di uscire.. (poco male perché tanto non ho i soldi per uscire e divertirmi..)
Finché un giovane laureato riterrà squalificante la compagnia dei suoi coetanei che hanno sempre lavorato, e rimarrà a propria volta incapace di guardare oltre le apparenze da “tronisti” e “veline” per apprezzare l’umanità di chi ha esperienze diverse, non ci sarà alcuna redenzione possibile per questa Italia. C’è solo il piagnisteo di una finta classe media che reclama invano i propri privilegi perduti. Personalmente, non ho problemi a uscire con ragazzi che fanno i camerieri o i baristi, pur avendo anch’io maturità classica, laurea specialistica e avendo anche cominciato un dottorato. Non potrei mai, invece, aver rapporti di amicizia, provare stima o anche solo simpatia per una persona dichiaratamente razzista o fascista, foss’anche un luminare della scienza o un filosofo (e sappiamo che ce ne sono stati, di filosofi fascisti e nazisti). Di donne che si vestono come delle veline, poi, son piene anche le università, gli uffici e gli ospedali. Personalmente, in assenza di criteri più affidabili, preferisco dunque scegliere chi frequentare in base ad altri parametri, come l’apertura mentale, la sensibilità e l’intelligenza, tutte doti che non hanno niente a che vedere col titolo di studi (alcune delle persone più imbecilli e razziste che conosco hanno una laurea o un dottorato di ricerca, e si ritengono pure “de sinistra”). Ma al di là delle mie preferenze – che non penso siano così interessanti – credo che, finché si considererà la cultura come un mero accumulatore sociale e non come un valore in sé, e finché la scuola, l’istruzione e la ricerca saranno considerate solo in base a quello che possono rendere individualmente, non si riuscirà a convincere la stragrande maggioranza degli italiani di quanto esse siano importanti per ricominciare a pensare il futuro.
5) Fighetto a chi?
Altra costante, l’odio verso i “parassiti”, i “raccomandati”, i “fannulloni”. Da questo punto di vista, questa è anche l’arma culturale più forte dell’attuale maggioranza politica italiana, che riesce facilmente a stornare l’odio verso i privilegiati veri (in senso economico e sociale) contro quelli presunti. È così che noi passiamo il nostro tempo a difenderci dall’accusa di essere inutili in quanto “statali”, “umanisti”, “gente istruita” e via dicendo, mentre i “cervelli in fuga” devono esibire il 740 (il loro o quello dei loro genitori) a degli emeriti sconosciuti che si nascondono dietro a un nickname e allo schermo di un pc. Questo meccanismo è poi lo stesso che spinge a considerare, per definizione, “raccomandati” (o “fighetti”) tutti quelli che, almeno in apparenza, “ce la fanno” (leggi: trovano un lavoro decente, in Italia o all’estero). Ed è anche quello che spinge il presunto “fighetto” a discolparsi, o a sentirsi in colpa. “Fighetto a chi?”Di qui, infine, anche la glorificazione della propria resistenza: “non voglio mollare, non voglio scappare all’estero”, con la consueta sfumatura di rimprovero. Peccato che poi la soluzione più a portata di mano sia quella di rimanere soli, passivi, di accettare condizioni umilianti, rimanendo rigorosamente da soli e scaricando le frustrazioni su chi ha ancora meno. Nel frattempo, però, prendersela con i “raccomandati” mette d’accordo tutti. E ci spinge a non riflettere sul fatto che, se un posto di lavoro decente è una lotteria da conquistare con ogni sorta di mezzo mafioso, forse il problema del lavoro è sistemico, e come tale andrebbe trattato.
6) La colpa è sempre dei paria.
La frustrazione dei figli della borghesia rischia infatti di alimentare il razzismo, l’intolleranza, l’incomprensione per il diverso e per le sue ragioni. Se il padrone mi paga una miseria, la colpa non è sua, ma dei meridionali (o dei contadini, o degli immigrati, o persino degli “stagisti”) che accettano quelle condizioni di merda. Come scrive “l’ex liceale milanese”:
Fino a non molti anni fa una situazione del genere in Italia la si poteva osservare solo in certe aree del profondo meridione e allora l’eldorado sembrava proprio la nostra città. Oggi purtroppo a Milano molti ventenni laureati di buona famiglia, i figli della borghesia, sono costretti loro malgrado a starsene coi “mann in mann”.
Cioè, fateme capì, finché con le mani in mano ci stanno gli altri, i figli degli operai, o quelli dei meridionali, va tutto bene? Finché di lavoro si muore solo al Sud, non c’è nessuno scandalo? Finché dalle impalcature cadono i rumeni, che ci permettono di vivere nella bambagia, è tutto a posto?
A volte la propria auto-commiserazione è talmente forte che si finisce per reclamare il poco disponibile (aiuti statali, case a prezzi decenti) solo per sé – ‘abbiamo avuto tutto, vogliamo ancora tutto!’ – dimenticando qualsiasi idea di solidarietà, e prendendosela con chi ha ancora meno di noi e nemmeno una famiglia benestante alle spalle a sostenerlo. Ma quelli che ti pagano 450 euro al mese e poi ne spendono 1500 per una settimana alle Maldive, quelli no, non hanno colpa. La colpa è della famiglia marocchina con 4 figli che ha diritto alla casa del Comune: i percettori di affitti in nero che fanno i miliardi sull’evasione fiscale, quelli no, non hanno colpa. La logica, in realtà, non fa una grinza: se la colpa è di chi viene sfruttato (il precario, in quanto “fannullone”, o “ignorante con la laurea”), come negare che i capri espiatori per eccellenza siano “gli altri”, gli stranieri o gli emarginati? Chi perde, in questa Italia, ha sempre torto.
Naturalmente, molte di queste fallacie non sono esclusive di questa lettera e delle risposte che l’accompagnano, ma si ritrovano nelle discussioni, tanto sui siti e i blog più seri, quanto in quegli sciocchezzai che sono i blog meno seri; si ritrovano nel dibattito e nella percezione corrente della disoccupazione giovanile e del precariato dei ventenni (o venticinquenni) laureati e specializzati. Molte di queste fallacie nascono da una tendenza al personalismo, che in parte è insita nei blog e nei social network – diari i primi, comunque piattaforme per la narrazione individuale i secondi – ma è più generalmente caratteristica del nostro tempo, così individualista e così refrattario alla Storia, a cui spesso si preferisce il pathos e delle storie. Raccogliere e raccontare le storie, invece, è necessario ma non basta: le storie vanno anche lette, analizzate, poste in una prospettiva più vasta, in un tentativo di comprensione che porti a un cambiamento. Ancor prima, forse, le storie vanno demistificate, liberate dai fantasmi delle metafore dominanti, che infestano tanto più facilmente le “narrazioni” apparentemente spontanee . Al contrario, quando si ragiona a partire solo dalle frustrazioni – legittime ma poco meditate – dell’”io”, o dalle cose che mi ha raccontato “mio cugino”, difficilmente si evita una narrazione fatta per stereotipi – altro non sono, infatti, le sei fallacie da me elencate. Nel frattempo, squaletti e alligatori se le cantano in una rete sempre più simile a un recinto. E nell’ansia di sparare ai “fannulloni”, talora finiscono per prendersela con chi davvero non ha nulla.