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ancora dalla parte delle racchie [31 maggio 2011]

In dododonne, educazione on novembre 16, 2011 at 5:11 am

Qualsiasi persona dotata di buon senso si innervosisce se, all’ora di cena, mentre fa zapping tra un tiggì e un documentario, vede far capolino dalla propria tv una donna in tanga avvinghiata al palo della lap dance. Uno dei tanti motivi del crollo elettorale nella destra è da ricercarsi, probabilmente, nella nausea provocata da mesi di bunga bunga, Nicole Minetti, Ruby e minestre (o ministre) varie: un balletto che rappresenta non solo un’offesa alla dignità delle donne e uomini del Paese, ma anche uno schiaffo alle tante persone che si arrabattano tra problemi materiali e alle tante giovani plurilingui, laureate e disperate che si sentono proporre, quando va bene, stage gratuiti o lavoretti, se non addirittura l’umiliante invito a “sposare un milionario”.

Alle donne “quarto di macelleria” stiamo finalmente cominciando a reagire, eppure altri stereotipi resistono inossidabili. Quello della “bruttina stagionata”, per esempio, anche nelle sue numerose varianti: ad esempio quello delle “single che se le guardi capisci perché sono single” (su cui ebbi un giorno a redarguire un giovane redattore on-line), o quello della “racchia che diventa scopabile all’ottava birra”. Certo, in molti ci siamo indignati quando Mr. B. ha dato ripetutamente della ‘racchia‘ a Rosi Bindi, ma la tentazione di farlo a nostra volta (uomini o donne che si sia), magari verso una ‘rivale’ in amore o verso una collega che non stimiamo è dura da estirpare. E mentre per le battute più volgari esiste un codice di riprovazione condiviso, le reazioni difensive in questo caso sono più alte: ci si nasconde dietro la scusa della mancanza di senso dell’umorismo (“è solo una battuta”), dietro al topos del “così fan tutte” (“anche le donne lo fanno sui maschi”), se proprio non si persevera nell’insulto (i.e. “te la prendi perché sei una racchia pure te”). Non che ne senta la mancanza – anzi… –, ma non riesco a trovare un equivalente prettamente maschile per termini quali “racchia” e “cozza” (“cesso” essendo usato in funzione aggettivale ma per entrambi i generi, i.e. nella frase “quella ragazza è un cesso”; ci sarebbe “rospo”, al limite, ma fateci caso, i ‘rospi’ maschi trovano sempre qualche principessa che si offre volontaria per baciarli.). E soprattutto, non riesco a trovare un motivo per cui si debba far ricorso allo stesso immaginario per spiegare un triste intreccio di gelosie e patologie in un ambiente malato e oppressivo sfociato in un tanto noto quanto tragico delitto familiare.

Parlo dell’articolo “Gli sms, i flirt e le grinfie della madre”, uscito su Il corriere della sera il 28 maggio 2011, a firma Goffredo Buccini. Lo dico a scanso di equivoci: di solito cambio pagina quando mi imbatto nel nome proprio di luogo “Avetrana”, perché a leggere tutti quei morbosi dettagli avrei la sensazione di profanare un cadavere. Ho letto questo articolo perché l’ho trovato segnalato in un commento (indignato, ça va sans dire) a un post di Lipperatura, all’interno di una discussione OT. Avendo letto l’articolo, capisco il motivo dell’indignazione. Scrive infatti il giornalista: «Lei è la ragazza del dopo mezzanotte, grassottella, collo taurino, braccia da camallo, quella con cui non ti faresti mai vedere in pizzeria ma che dopo la terza birra a ora tarda non ti dispiace più come prima».

Picture 3Leggere una frase del genere mi ha riportato indietro di quasi quindici anni, in quel mondo di paturnie per gli apparecchi dentali, i brufoli, le andature storte dettate dall’atroce moda della fornarina e i gonfiori vari che funestavano la nostra prima adolescenza. Ricordo ad esempio la battuta di un mio compagno di quarta ginnasio, orecchiata durante l’intervallo, che proponeva di mettere un “cartone in faccia” alle più bruttine della classe per renderle “scopabili”. Il problema è che qui non siamo in uno spogliatoio di quindicenni frastornati dalle loro prime tempeste ormonali. Siamo sulle colonne del Corriere della Sera. Il giornalista fa indiscutibilmente appello a un mondo condiviso («Lui cammina sul filo dell’amicizia ambigua, fanfarone come siamo noi maschi», scrive ad esempio, con un tono che vorrebbe suonare critico), e dipinge una mentalità che effettivamente esiste ed è radicata, ma il risultato non cambia: nella presentazione di una vicenda di sangue, si insiste sull’avvenenza dei protagonisti, presentata secondo gli immancabili cliché del bar. E, nel momento in cui questi termini, senza l’impiego di virgolette o altre strategie citazionali che rendano chiaro un distanziamento da parte di chi scrive, appaiono sulla cronaca di un quotidiano “autorevole” e “moderato” come il Corriere della Sera, a me vien da dire che lo sfondamento è totale.

Ora, abbiamo scoperto l’acqua calda, lo so. Che il “delitto di Avetrana” sia, in quanto narrazione condivisa, la negazione del giornalismo e di una qualsivoglia deontologia professionale, non è certo una gran novità. Narrazioni simili (perché questo è diventato il delitto, in seguito alla sua crassa spettacolarizzazione) si nutrono non solo della morbosità condivisa, ma anche di paure e isterismi collettivi, oltre che di una certa noia e oziosità da parte di chi le segue per passatempo. I cliché hanno una funzione strutturante, in questo tipo di rappresentazioni che si servono di tipi fissi, di stereotipi e di una palette predefinita di “tinte fosche”. Su questo aspetto talora gioca anche la satira, come per esempio in un recente pezzo degli immensi Lia Celi e Roberto Grassilli, apparso su Il Misfatto. Avverto i lettori che il link è decisamente alieno a qualsiasi misura e senso di politically correct, e richiede la consueta dose di cinismo, ma se vi piace lo humour nerissimo, ne vale la pena.

Il mio può sembrare un commento frivolo, rispetto alle questioni di più stretta attualità, o anche un po’ ideologico (di una certa ideologia femminista d’antan) e invece non lo è. Non lo è perché alle donne (a cominciare dalla bolognese Amelia Frascaroli, che con la sua dignità e competenza si è rivelata la più votata d’Italia con 3.941 preferenze) spetta un ruolo importante nell’attuale risveglio politico, al di là di qualsiasi retorica da “quote rosa”: non si può pensare di cambiare il modo di far politica senza coinvolgere le donne e le loro pratiche, non in uno spazio di separatismo ma in piena dialettica e confronto con le altre istanze e con tutti i soggetti in gioco. E non lo è perché l’ossessione per il possesso di carni fresche e giovani (fatto che non ha niente a che vedere con la bellezza, ma semmai con un consumo e quasi un divoramento dei corpi) è un’ossessione del potere maschile di questi anni: che poi, è questo il vero punto di contatto tra il Puttanaio di Stato che siamo diventati e la vicenda di Dominique Strauss-Kahn, al di là delle vignette idiote e delle battute stupide che – soprattutto all’estero – ci sono piovute addosso. Stupro di stato, impunità che si erge a sfidare lo stesso senso delle convenzioni e del ridicolo così care alla vecchia etica borghese, nuova etica della volgarità e dell’ostentazione, dilagante a negare qualsiasi confine tra il “dentro” e il “fuori”, ancor più che tra il “pubblico” e il “privato”: sono questi gli elementi di un fascismo del corpo, che è un architrave psichico del sistema politico finora vigente. Del resto il bunga bunga, nelle sue implicazioni storiche e presenti, ha una fortissima dimensione di pratica “coloniale”, e non è un caso che lo ritroviamo a far da pilastro all’immagine della sovranità assoluta di questi anni, il Re ed il suo Harem. Se non cominciamo a far piazza pulita ANCHE di queste cose, di Mr B. e del suo impero mentale non ci libereremo mai.

Detto questo, il vento sta cambiando: e non lo dimostra solo la débacle dei vecchi leoni, o la freschezza di chi neo-eletto, promette di dare spazio a donne e giovani ma soprattutto a rigore e competenza (aspettiamo i fatti, però, e restando vigili…); ma lo dimostrano anche i commenti indignati dei lettori che, finalmente, hanno cominciato a saltare sulle sedie e sulle poltrone girevoli, protestando contro il maschilismo palpabile di certi stereotipi e luoghi comuni. Il fulcro della questione non sta nell’indignazione fine a se stessa o nei “processi alle intenzioni” del giornalista; sta nel fatto che certe modalità, certi toni e certe metafore siano avvertite come ‘connotate’ e non passino come elementi neutri (nulla è più ideologico della “neutralità”), che suonino ‘stridenti’ e non passino inosservate amalgamandosi, come componenti inoffensivi, al linguaggio d’ogni giorno. Certo, sono smottamenti piccoli, in confronto alle rivoluzioni che ci fanno sognare (e dove, ricordiamolo, alle dimostranti viene imposta la tortura fisica e psicologica del test di verginità, altro che maschilismo….): pure, è nei piccoli passi che si cambiano le cose.