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Archive for the ‘this is the end of the world’ Category

Dio benedica l’America. Oppure la salvi.

In attitudine popular, canadian bacon, cinema, recensioni di recensioni, this is the end of the world on dicembre 5, 2012 at 10:12 PM
Un fotogramma da "Detropia"

Un fotogramma da “Detropia”

Un mese fa mi trovavo a Detroit, in Michigan, per una giornata di studi sulla letteratura apocalittica alla Wayne State University. Lo so, la location non poteva essere più adatta all’argomento. Quasi tutti i miei conoscenti, canadesi e americani, hanno già fatto questa battuta, resi edotti – più che da Michael Moore – da documentari come Detropia. Sia detto per inciso, a me Detroit è piaciuta. L’ho trovata una città complessa e viva, e contrariamente al resto del Michigan, in risalita (semmai a rischio di gentrificazione, dato il numero di artisti che la crisi immobiliare ha attratto da 4 o 5 anni a questa parte). E poi ha una delle più importanti collezioni di arte di tutti gli Stati Uniti, che risale ai tempi in cui il famoso 1%, dopo aver sfruttato generazioni di operai, comperava quadri di Bruegel e Matisse a paccate per regalarvi città. Ancora oggi i residenti possono entrare gratis al Detroit Institute of Art, dove, tra le altre cose, ho potuto coronare il sogno di una vita vedendo dal vero le matrici di Sogno e menzogna di Franco” e diverse matrici di Jazz di Matisse. Certo, che le sale di arte afroamericana siano sponsorizzate da General Motors, fa un bell’effetto. Ma non è di questo che vorrei parlare, anche se questa contraddizione è indicativa delle mille complessità di una cultura troppo spesso liquidata con un’alzata di spalle e ridotta, da chi non la conosce, allo stereotipo di Coca Cola e Mc Donald’s.

Durante una pausa del seminario, chiacchierando, uno dei docenti intervenuti si è messo a parlare di The Hunger Games e del fatto che i suoi studenti ne abbiano immediatamente assimilato l’idea in modo commerciale, per esempio esibendo le ‘unghie smaltate’ a tema, a riprova del fatto che qualsiasi critica al sistema viene immediatamente assorbita e resa innocua. Posto che The Hunger Games mi pare già in partenza più assimilabile al mainstream che alla critica del mainstream, la discussione mi è tornata in mente ieri sera, guardand

Unghie a tema - The Hunger Games

Unghie a tema – The Hunger Games

o un altro film: Good Bless America, uscito la scorsa primavera nelle sale americane e diretto dallo stand-up comedian Robert “Bobcat” Goldthwait.

God bless America è un film discutibile da tutti i punti di vista. Discutibile la sua trama, che, come ha notato il recensore John Patterson sulle colonne del Guardian, sembra scritta sul retro di un tovagliolo; discutibile la sua coerenza narrativa, che sfida spesso il senso della logica; discutibile il suo contenuto (per lo più scene di violenza estrema o di volgarità televisiva) e il suo senso dello humor, che definire ‘nero’ è dire poco. Un film irrisolto, ma che a mio avviso vale la pena di guardare – sempre che si abbia lo stomaco di farlo.

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La trama si riassume facilmente: Frank (interpretato da Joel Murray), un colletto bianco di Syracuse, NY, vive una vita grama e solitaria, scandita da emicranie invalidanti, dalle urla dei vicini di casa e dagli atteggiamenti manipolatori dell’ex-moglie, una deficiente capace di regalare un blackberry a una bambina di sette anni. Tutto questo è acuito dalla consapevolezza di una volgarità dilagante, che i media (in particolare tv e internet) stanno elevando a nuovo stile di vita americano. Fin qui, Frank è solo il tipo un po’ strambo e fuori moda che i colleghi trattano con sussiego, ma nel giro di 24 ore, la sua vita cambia completamente. Perde il lavoro (dopo che un suo corteggiamento all’antica, con tanto di fiori mandati a casa, viene interpretato come molestia sessuale) e si vede diagnosticare un tumore al cervello nell’indifferenza più completa. La sera, a casa, mentre medita di farla finita, la consueta volgarità televisiva gli schiude un’epifania: invece di uccidersi, ruba la Camaro gialla del vicino di casa e si dirige alla volta della Virginia, per uccidere a pistolettate Chloe, l’adolescente più viziata d’America, appena vista in televisione. Dopo l’assassinio, si unisce a lui Roxy (interpretata da Tara Lynn Barr), un’adolescente con una chiara predisposizione all’ADD e all’omicidio di massa. I due proseguono la loro fuga indisturbati, facendo le vendette di celebrità da talk-show, estremisti di destra e fanatici religiosi, maleducati da cinema e da parcheggio, anchorman di estrema destra e promotori della cultura d’odio, fan di Mixed Martial Arts (su questo potrei persino essere d’accordo) e giudici di talent show: insomma, chiunque promuova attivamente la bruttura, il fanatismo, la violenza psicologica verso il più debole e l’esibizionismo attualmente dominanti nella pop culture americana.

Per quanto la sua violenza venga attenuata dal filtro della satira e della finzione, God Bless America è un film dove si spara e si ammazza a ripetizione, in modo prima disturbante, poi dissacrante, quindi anestetico. Per capire la portata liberatoria di questa ecatombe, bisogna aver visto almeno qualche ora di televisione americana. So che i miei connazionali alzano le ciglia (dopotutto noi abbiamo avuto Berlusconi), ma la sensazione di shock e direi quasi di terrore che si prova a fare un’ora di zapping sulla televisione americana non è esprimibile con parole umane e non è comprensibile a chi non ne abbia fatta esperienza diretta. Per questo, i venti minuti di satira televisiva che scatenano la follia omicida di Frank valgono da soli il prezzo del biglietto (o della sottoscrizione a Netflix). Capisaldi della trash tv americana come American Idol, The Bad Girls Club e My Super Sweet Sixteen sono parodiati in versioni appena più estreme, ma ben riconoscibili. Le finte clip sembrano, a volte, debitrici delle ‘vere’ clip pescate nel mare magnum di YouTube, quasi a dirci che la realtà della trash tv americana è ben più estrema di qualsiasi parodia. Chloe, la teenager viziata della finzione, parla con parole della (?) realtà. In questo modo il film assume il linguaggio della clip, dello spot o del frammento di tv verità che vuole criticare; allo stesso modo, la completa nonchalance con cui i personaggi uccidono ricorda quella di un videogame. God bless America mi ha ricordato, guardandolo, gli adolescenti di The Hunger Games (che, a detta della sua autrice, è stato concepito proprio in una seduta di zapping, nello straniante contrasto tra scene di guerra e scene di reality show); o il bellissimo e spietato protagonista di We need to talk about Kevin (2012), forse il film che ha trattato con maggior complessità e profondità il tema delle sparatorie di massa americane.

Per questo, nonostante la sottigliezze narrative (tra cui il sottotesto di riferimenti cinematografici e letterari, compresa una doppia citazione di Lolita, una delle quali implicita) e le battute fulminanti, il film di Goldthwait non mi ha convinto. E il motivo non è solo la sua continua, martellante, esasperante brutalità; e nemmeno, problema ben più grave, la superficialità con cui affronta un tema molto delicato (nel guardare la pioggia di pallottole del film tornano in mente le sparatorie di Columbine, di Aurora in Colorado, del Virgina Tech: tragedie autentiche che forse meriterebbero un po’ più di rispetto); ma la completa, contraddittoria circolarità tra il mondo che critica e la sua possibile alternativa, quasi a significare che ogni battaglia è persa in partenza e che ogni possibile opposizione contiene in sé il germe della propria capitolazione al nemico. Del resto, come si diceva, di contraddizioni è piena l’America.

in difesa dell’ironia

In a spasso tra i libri, attitudine popular, educazione, repubblica delle lettere, this is the end of the world on novembre 19, 2012 at 10:56 PM

Parodia di Hipster. Fonte: Chicagoshows.wordpress.com

Alcuni giorni fa, sulla rubrica The opinionator, il New York Times ha pubblicato un lungo e polemico articolo contro l’ironia di Cristy Wampole, Assistant Professor di Francese a Princeton. L’autrice denuncia in modo appassionato e retoricamente efficace l’attitudine alla distanza dei suoi coetanei, e auspica che ci si liberi dall’ironia, dalla tendenza a evitare qualsiasi presa di posizione seria, tornando a un ethos non più ‘reattivo’ ma ‘attivo’. Si può capire come queste parole, che suonano come un incitamento al rigore e all’impegno, siano suonate condivisibili e persino ‘rinfrescanti’ nel gruppo di coetanei (per lo più con aspirazioni intellettuali) che frequento. Pur condividendo l’assunto etico di fondo, nel proseguire la lettura non ho però potuto reprimere un crescente senso di perplessità.

Sarà che il mio è un osservatorio limitato, per cui non conosco molti hipsters. Sarà che leggo molte notizie di politica, sia italiana sia internazionale, per cui mi pare che ‘disperazione’ e ‘incazzatura’ siano termini più accurati di ‘ironia’ e ‘presa di distanze’ per descrivere l’atteggiamento della generazione mia coetanea. Probabilmente il mio punto di vista è provinciale; ma a me pare che occuparsi in tale dettaglio di come una certa ironia (falsa ironia, la chiamerei io) ci impedisca di prendere posizione sul presente sia una contraddizione in termini.

Più precisamente, a me sembra che l’ironia descritta dall’autrice sia un atteggiamento molto diffuso all’interno di una data cerchia o di una precisa classe sociale, ma non rappresentativo di un’intera generazione – cosa che diversi lettori non hanno mancato di notare nella sezione dei commenti. Con buona pace dei pochi di noi che abitano una bolla accademico-artistico-culturale oppure hanno la fortuna di svolgere lavori creativi (il pubblicitario, il ricercatore universitario, il giornalista e consimili), la maggior parte delle persone vive senza necessariamente simulare, si preoccupa per il proprio presente e futuro, ascolta la musica che ritiene di trovare gradevole e, se parla, pensa di dire ciò che sta dicendo (anche quando in realtà sta dicendo qualcos’altro). E non perché siano ‘infantili’; al contrario, perché a differenza di noi sono “adulti veri” che vivono nel “mondo reale”. Ma questo non è necessariamente un bene, come la stessa retorica del “mondo reale” (usata per incolpare intere classi sociali del loro destino) dimostra.

***

Personalmente amo l’ironia, e non credo che tutte le risate siano ridanciane, inutili o idiote. Ci sono risate che feriscono e risate che mordono. Se così non fosse, ad esempio, il sarcasmo non sarebbe considerato un peccato capitale (come invece è, almeno qui in Nordamerica, e comprensibilmente: perché il sarcasmo è un modo di mostrare i muscoli, sia pure quelli del cervello). C’è una grande enfasi, nella cultura letteraria di oggi, sul bisogno di ‘serietà’. Così, mentre il web pullula di meme e immagini assurdamente ridanciane, mentre il potere governa mediante un uso oppressivo della risata, e mentre la continua osmosi tra lavoro e piacere rende alcuni di noi incapaci di rendersi conto della reale abolizione di diritti e tutele, la parte più “consapevole” della nostra società si dà da fare per promuovere forme pulite e quasi edulcorate di humour. Nel frattempo, tra gli intellettuali si predica a gran voce la morte del postmoderno e il ritorno dell’impegno: a volte in via solo teorica e intellettuale, a volte anche in modo concreto, piantando gazebi e dipingendo cartelli. Pur riconoscendo il valore culturale di alcune battaglie (quella per il politically correct, ad esempio) io non credo che un’eventuale vittoria della serietà e della correttezza ci renderebbe necessariamente più liberi o consapevoli.

A mio avviso l’autrice pecca di ingenuità quando identifica l’ironia con un particolare tipo di ironia: quella che lei esemplifica con la posa artefatta dei nuovi “hipster”. Credo che in questo senso la sua formazione letteraria, di studiosa della narrativa post-moderna, possa essere fuorviante. Perché quando leggo una frase come “It stems in part from the belief that this generation has little to offer in terms of culture, that everything has already been done, or that serious commitment to any belief will eventually be subsumed by an opposing belief, rendering the first laughable at best and contemptible at worst,”* mi ritrovo immediatamente trasportata in un ethos filosofico politico di vent’anni fa, dove il picco petrolifero non è nemmeno contemplato, il debito non esiste e il radicalismo politico nemmeno. Siamo ancora dalle parti del dibattito sul postmoderno: un dibattito formulato a livello internazionale (penso alla mostra londinese Postmodernism: Style and Subversion 1970–1990, tenuta nell’autunno del 2011 al Victoria and Albert Museum), e che, nel nostro piccolo, è arrivato anche in Italia, dal dibattito sul New Italian Epic (2008-2010) al dibattito filosofico sul New Realism recentemente animato da Ferraris e Vattimo.

Io credo che non si debba rigettare l’ironia, ma fare qualche utile distinzione, perché nell’appropriazione ridanciana di miti e modelli consumisti non c’è nulla di profondamente ironico. Quella che Wampole descrive nel suo articolo non è ironia, ma una perversione dell’ironia. La caricature di hipster che abita il nuovo secolo (di cui si può leggere un profilo tanto caustico quanto famoso qui) deve prendersi gioco della musica commerciale perché la ama, o perché a dispetto della sua costosa educazione, è culturalmente succube della cultura pop. I nuovi hipster che affollano le strade di Williamsburg e che si considerano trendsetter sono consumatori culturali all’ennesima potenza; ma oggi siamo tutti consumatori culturali, a vari livelli, ed è per questo che il loro atteggiamento estremo ci risulta tanto familiare.

In questo contesto, l’ironia è, o forse dovrebbe essere, la capacità di dirsi produttori, anziché consumatori, di cultura. Di cambiare non il canale, ma il terreno della ricezione. Di usare i linguaggi correnti per formulare un nuovo linguaggio. Non un nuovo messaggio, si badi: questo lo fanno tutti, anche i pubblicitari. Formulare un nuovo linguaggio è, invece, una cosa difficilissima, che è riuscita a pochissimi, solo ai più grandi tra gli scrittori. Italo Calvino, per dirne uno.

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E in Italia? Nel Bel Paese, si sa, siamo malati di umorismo, di macchiettismo, di ironia. Alle peggiori schifezze della nostra classe dirigente reagiamo facendo ‘battute’, sentendoci dei tanti piccoli Totò. La classe politica a propria volta non ritiene di dover governare, assumendosi apertamente la responsabilità della propria macelleria sociale, ma si esprime per battute, scatenando ondate di indignazione a costo zero – dai bamboccioni ai choosy, perfetti equivalenti culturali del ‘que se jodan’ spagnolo.

Se c’è un paese dove in apparenza il Governo Della Risata si è esercitato con pervasiva violenza, questo paese è l’Italia. C’è stato un periodo in cui addirittura si decretava la morte della satira che – si diceva – sarebbe stata superata dalla realtà (effettivamente scene come quelle di un Calderoli che, nel 2006, definiva la propria legge elettorale “una porcata” sembravano tratte dal “Cuore” dei tempi d’oro).

Vignazia ’12

A volte mi capita di chiedermi se l’ironia (o l’antifrasi, che dell’ironia è parente stretta) sia inadeguata a descrivere la repressione delle piazze nel 14 novembre, o l’arroganza della classe dirigente italiana. E credo che nella loro forza comica, le forme di  satira non siano inadeguate, a differenza delle tante petizioni e forme varie di clicktivismo e indignazione mediata. Perché denunciano, tra le altre cose, uno stato di linguaggio in cui “le cose non sono le cose,” per cui

l’antifrasi diventa l’unico modo possibile di relazionarsi al potere. Certo non basta fare battute e scrivere satire. Ma nella satira si può annidare un profondo germe di ribellione, e sarebbe ingenuo – oltre che controproducente – volersene privare.  E penso al senso di sconcerto che ho provato la prima volta che ho visto una finta pubblicità di Adbusters. Me lo ricordo: fu a Firenze, alla Fortezza da Basso, nei giorni del FSE del 2002 (un luogo non particolarmente ironico, bisogna riconoscerlo). Guardando gli enormi banner finti di Mc Donald’s sventolare dal soffitto, mi ci vollero un paio di secondi per capire che si trattava di una parodia, eppure mi rimase un senso di disagio addosso ancora per qualche minuto.

Siamo sicuri che questa ironia sia la stessa dell’hipster che se ne va in giro con la maglietta di Justin Bieber, si veste da SuperMario per Halloween e afferma di amare la musica di Katy Perry perché è, oh, so shitty? Ne dubito fortemente.

Io credo che alcune di queste rappresentazioni antifrastiche, ironiche o parodiche siano  frutto di impotenza – la stessa impotenza che ha animato per secoli le pasquinate, i carnevali, e persino le uccisioni in effigie di tiranni, duci e ducetti. Ma l’impotenza di chi subisce la violenza della storia e non ha altro rifugio che lo sberleffo non è necessariamente la stessa di chi si immagina inerte e passivo, e usa l’ironia come una coperta per continuare a nascondersi. Gridare che i lacrimogeni non rimbalzano su Marte è gridare che il re è nudo: vuol dire denunciare l’assurdità che è già al potere e che ci governa, pretendendo di farci dire che due più due fa cinque.

Per questo anche noi italiani non dobbiamo essere per forza contro l’ironia: ci basterebbe liberarla dall’autocommiserazione, dalla passività, dal narcisismo generazionale e dalla mercificazione, per tornare a usarla come uno strumento verace, violento, disarmonico. Perché l’ironia non è accettazione ridanciana del reale. Questo è ciò di cui ci hanno convinto per vent’anni. Ma l’ironia è altro. È soprattutto distanza: e come tale è una difesa potentissima da quel meccanismo di commercializzazione che, a ritmo sempre più vertiginoso, si appropria di tutte le narrazioni, e soprattutto di quelle serie, ontologicamente ingenue, e cioè di quelle con un messaggio sociale chiaro, rassicurante, impegnato e inquadrabile.

Se un dovere hanno oggi gli artisti e gli intellettuali, è precisamente quello di produrre opere brutte, dissacranti, urticanti, opere che facciano letteralmente schifo –   non in qualche modo esteticamente accettabile, ma che ci disgustino e ci rivoltino nell’intimo, che ci sveglino e impediscano in ogni modo di provare piacere. Opere che suscitino in noi un senso di terrore e di violazione, opere che ci spingano a dubitare, con un brivido, della loro finzionalità, invece di presentarsi arrogantemente, e contraddittoriamente, come “reali”. Opere che siano imprendibili, immistificabili, proteiformi. E quindi sì, anche ironiche, se ciò serve a evitarne il consumo.

Guardatevi, piuttosto, dalle narrative ‘impegnate’: producono assuefazione.

***

*Traduzione: [questo atteggiamento deriva, almeno in parte, dalla convinzione che questa generazione abbia ben poco da offrire in termini culturali, che tutto sia già stato fatto, o che qualsiasi impegno serio sarà, alla fine dei conti, inglobato da una convinzione di segno opposto, che trasformerà l’ideale di partenza in un oggetto ridicolo (nella migliore delle ipotesi) o disprezzabile (nella peggiore)]

We are the world, we are the children

In a spasso tra i libri, attitudine popular, cinema, generazioni, sci-fi, this is the end of the world on agosto 25, 2012 at 1:37 PM

1. Beasts of the southern wild.

Fonte: Beastswofthesoutherwild.com

Dopo aver guardato Beasts of the southern wild, sono uscita dalla sala del cinema in preda a sensazioni ambivalenti, ma senza stupirmi del successo incontrato alla prima proiezione al festival di Cannes.  Perché con una storia del genere, attori del genere, e una fotografia di tale qualità, è tecnicamente impossibile non strappare applausi.

Beasts of the southern wild è un film visivamente perfetto, di una bellezza selvaggia (l’aggettivo non è scelto a caso) e struggente. Nel fotogramma che ha fatto il giro di tutte le cartelle stampa, c’è l’anima del film: una bambina di 6 anni, la protagonista “Hushpuppy” (interpretata dalla strepitosa Quvenzhané Wallis), dalla tempra indomabile e dai capelli intricati come una mangrovia, che sprizza energia e faville dalla punta delle dita.
Una fantascienza tutta d’ambientazione, basata sulla proiezione lineare del nostro presente ed evocata in pochissimi tratti. Il mondo di Beasts of the Southern Wild è in preda alla trasformazione: i poli si stanno sciogliendo e il mare è destinato a innalzarsi di decine e decine di metri, cancellando ampie aree di quella che oggi conosciamo come civiltà umana. Cinefili e appassionati non devono tuttavia aspettarsi catastrofi brusche (ed esteticamente mediocri) in stile The day after tomorrow. La trasformazione è appena accennata, lenta, lasciata intravedere per piccoli indizi. Nella sua denuncia, il film parla soprattutto del presente: neanche lo spettatore più sprovveduto riuscirebbe a non cogliere il riferimento uragano Katrina, alla gestione del Superdome e alla politica razziale attuata dall’amministrazione Bush in occasione di quel tragico evento.

Anche visivamente, il lavoro è opera di qualcuno che ha profondamente riflettuto sulla natura dei confini. Lo spazio della comunità (idealmente creola, ibridata e “sporca”) sfugge alla dicotomia utopico/distopica: è un’eterotopia foucaultiana, ciò che il cultore di fantascienza Darko Suvin (un mai troppo citato genio della teoria letteraria contemporanea) considera come una forma di immaginazione fantascientifica. Quello di Hushpuppy e di suo padre Wink (nel film, interpretato da Dwight Henry) è un mondo governato da altre leggi, tanto sociali quanto fisiche: vigono un’altra scuola e un’altra nozione di famiglia, un’altra legge civile regola la nascita il battesimo e la morte; persino la fisica obbedisce ai principi del realismo magico per cui ogni cosa si trasforma incessantemente e nulla, in fondo, muore. L’aspetto più politico del film, a mio avviso, è proprio questo: non la “denuncia” del riscaldamento globale e della crisi ecologica, ma la rappresentazione degli spazi e dei confini che vi prende piede. È un confine segregante l’argine costruito dagli abitanti – non a caso bianchi – della città per arginare non solo la marea montante ma anche il “nomadismo” e l’assenza di regole della comunità di “diversi”. E non è un caso che il viaggio dei protagonisti si concluda su uno spazio liminale, una “no man’s land”, una lingua di terra che non è né mare, né sabbia. L’incertezza nebbiosa dell’ultimo fotogramma sembra fornire l’unica possibile rappresentazione del “futuro”, il tema cui rimanda peraltro l’intero racconto, nel significante della sua protagonista bambina.

2. Il futuro comincia adesso

«Frankly, our ancestors don’t seem much to brag about. I mean, look at the state they left us in, with the wars and the broken planet. Clearly, they didn’t care about what would happen to the people who came after them» (84). Sono parole tratte da un’altra epopea distopica/post-apocalittica, Mockingjay, il terzo volume (per la verità assai mediocre, e inferiore ai primi due) della trilogia The Hunger Games. Siamo sempre nello stesso tema: l’infanzia come specchio (e metafora) dello spazio che il nostro mondo dedica, davvero, al futuro anteriore[1].
Abusati e traviati come gli adolescenti dell’America neo-pagana di Suzanne Collins, o liberi e selvaggi come l’indomita Hushpuppy, i bambini sono il simbolo del futuro, e stanno lì a denunciare della mancanza di rispetto per il futuro che la nostra società pratica su basi direi quasi scientifiche. Il futuro di rifiuti e scorie che lasciamo in eredità ai nostri discendenti si metaforizza nelle piccole vite di questi protagonisti, in bene o in male. Simboli di speranza e di rinascita secondo i criteri del più antico messianismo, ma anche pronti ad ammonirci col loro sguardo straziato, testimone della più intollerabile delle violenze.

L’idea che i bambini siano (più che il mondo, come cantava Michael Jackson, uno che con l’infanzia aveva una relazione complicata) il futuro è, a mio avviso, un altro dei mitologemi d’inizio secolo. Ci aveva già provato 6 anni fa Alfonso Cuaròn in quel brutto film che è Children of Men (trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di P.D. James), un racconto infarcito di valenze religiose  e messianiche  malgrado il suo sbandierato odio per il ‘fanatismo’ (stigmatizzato almeno in due personaggi, il puro guerrigliero di colore e il guerrigliero bianco-rasta, razzista inconscio e, presumibilmente, figlio di papà). E, per rientrare in Italia, anche lo zombie-book I primi tornarono a nuoto di Giacomo Papi (Einaudi 2012) si conclude con la stessa scena: nell’oscena inversione della vita e della morte, una madre salvata dal linciaggio che procrea, un vagito come segno della speranza che rinasce.

L’immaginazione che attribuisce ai bambini poteri salvifici è potente come quella che nei bambini vede una minaccia o un’incarnazione del male: ci sarà sempre un fortunatus puer da contrapporre ai non-nati, agli elfi, ai bambini senza tempo di Running Wild di Ballard, di Lord of Flies di Golding, del già citato Hunger Games oppure di The Veldt, il terrificante racconto di Ray Bradbury. Per questo, nei film e nei libri distopici continuiamo a rivivere il mito di Noé (tra arche salvifiche e piccoli legni alla deriva) o, alternativa meno ovvia ma altrettanto pertinente, quello di Lot e delle sue figlie. Fateci caso: non c’è film catastrofico, dalla produzioni indipendente con velleità sperimentali fino alla peggior patacca da multisala, da Independence Day a 2012 a, appunto, Children of Men, che non contempli una scena dove l’Amico del Salvatore/Futuro Progenitore viene incenerito perché si sofferma a guardare la fine del proprio mondo, o (variante soft della precedente, il Salvatore/Futuro Progenitore si scuote appena in tempo dalla pericolosa attrazione per la catastrofe e si salva per un pelo).

Storie di speranza, di redenzione, di futuro, che ricordano allo spettatore distratto che esiste un’altra dimensione oltre al presente, una responsabilità verso quelli che verranno. Storie benefiche, a patto di non trasformare il bambino del futuro in un messia, in un idolo d’oro. Perché la tentazione di fare di queste storie dei messaggi a senso unico è molto forte, e produce discorsi senza senso. Come quello che ha fatto, appena due settimane fa, Ewan Morrison dalle colonne del Guardian, in un post (fintamente) provocatorio intitolato: What I’m thinking about … why capitalism wants us to stay single. Morrison tuona contro il consumismo implicito nell’idea di rimanere ‘single’ e ‘unattached’, non più una scelta controcorrente ma, al contrario, l’emblema del nuovo conformismo:

«It now makes economic sense to convince the populace to live alone. Singles consume 38% more produce, 42% more packaging, 55% more electricity and 61% more gas per capita than four-person households, according to a study by Jianguo Liu of Michigan State University», ha ammonito lo scrittore, scatenando le reazioni infuriate dei molti lettori che, oltre a doversi sorbire le domande invadenti della zia Clotilde a ogni pranzo di Natale, ora devono fare i conti coi sensi di colpa rispetto all’intero pianeta. Ed ecco la severa conclusione dell’autore.

Consumerism now wants you to be single, so it sells this as sexy. The irony is that it’s now more radical to attempt to be in a long-term relationship and a long-term job, to plan for the future, maybe even to attempt to have children, than it is to be single. Coupledom, and long-term connections with others in a community, now seem the only radical alternative to the forces that will reduce us to isolated, alienated nomads, seeking ever more temporary ‘quick fix’ connections with bodies who carry within them their own built-in perceived obsolescence”.

Ma se il primo vagito può produrre momenti di adorazione, e se può forse rappresentare un messaggio di responsabilità (più che di speranza), attenzione a non farne un simbolo universale, e a non trarne inferenze indebite. Perché in quest’epoca apparentemente bambino-centrica, che impone alle persone il dovere sociale (non morale, sociale!) di vivere il sogno familiare perfetto ma che eradica sistematicamente la possibilità di un vivere dignitoso per troppi esseri umani, in paesi dove le coppie spendono migliaia di dollari per un matrimonio e non hanno un’ora del loro tempo libero da dedicare al volontariato, in un mondo che considera dovere esporre su Facebook le foto del proprio neonato (il quale, ovviamente, non può rifiutarsi di essere esposto in quanto di più intimo si possiede, la propria nascita) ma se ne strafotte dei milioni di bambini che muoiono di denutrizione o di morbillo, il problema non è se procreare o non procreare, ma come educare.

zombi di tutto il mondo unitevi – la versione neocon

In a spasso tra i libri, attitudine popular, cinema, malatempora, sci-fi, this is the end of the world on febbraio 23, 2012 at 11:54 PM

Che cosa succederebbe nella governance globale se domani mattina iniziasse una catastrofica invasione di morti viventi? A questa domanda il teorico politico conservatore Daniel W. Drezner (Docente di Relazioni Internazionali alla Tufts University di Boston) ha dedicato un agile volumetto uscito nel 2011 per la Princeton University Press, accolto da un discreto successo di pubblico e di critica.  Theories of International Politics and Zombies è un libro veloce, scritto col tono di un instant book – e difatti, come lo stesso autore riporta, è nato come sviluppo di un post pubblicato nel 2009 su Foreign Policy (su cui l’autore ha un proprio blog). E’ un libro interessante ma superficiale, che analizza la letteratura con uno sguardo non letterario e spesso sfiora intuizioni profonde senza riuscire ad azzannarle (tanto per restare in tema): un libro scritto, insomma, più per coprire una nicchia che per esplorare a fondo un tema.

Drezner prende le mosse dalla recente fortuna del genere “zombi”, a dispetto della mancanza di fascino ispirata dalle figure di cadaveri ambulanti in avanzato stato di putrefazione (niente a che vedere coi sexy-vampiri e i maghetti volanti che impazzano tra i tweens di mezzo mondo). Perché, si domanda l’autore, nonostante la ripugnanza che questa figura ispira, negli ultimi dieci anni si è avuta una curva esponenziale nella produzione di narrazioni filmiche e letterarie? Da un lato, lo zombi è l’elemento per eccellenza della valle del perturbante: non umano, ma abbastanza simile all’umano da ispirare un turbamento profondo e istintivo. Dall’altro lato, sostiene Drezner, lo zombi è una delle poche istanze soprannaturali che ha una minima ‘plausibilità’ narrativa, e che si può motivare con teorie pseudo-scientifiche, crinale su cui insistono alcuni dei ‘testi’ esaminati (28 Days Later, in versione sia filmica che fumettara, e il seguito 28 Weeks Later).

In linea con un vasto filone di pensiero contemporaneo, Drezner insiste sul valore cautelare di tale immaginazione apocalittica (una tesi che è stata sostenuta, in anni recenti, da diversi teorici e pensatori). Leggiamo infatti: “L’uso di narrative finzionali (e in particolare horror e fantascienza) come fonti di dati per la costruzione di teorie è diventata pratica comune di recente” (19). Drezner ragiona da teorico, costruendo i confini del proprio “caso di studi”, rigoroso benché ipotetico. Il teorico procede dunque a una definizione operativa di zombi, visto come “un essere animato che occupa un corpo umano e desidera divorare cervelli umani” (21), e stabilisce tre proprietà rispetto al corpus narrativo che intende analizzare:

• Lo zombi desidera carne umana e non si accontenterà di nessun altro cibo o carne;

• Gli zombi non possono essere uccisi se non distruggendo il loro cervello;

• Ogni essere umano morso da uno zombi diventa a propria volta uno zombi. (22)

Si tratta di una definizione operativa abbastanza ristretta, che, come ammette lo stesso autore, esclude alcune delle “Ur-Narrative” del genere (I am legend, 1954 o L’invasione degli ultracorpi, 1956). Del resto, benché il corpus di finzione sia abbastanza vasto, bisogna osservare un limite del procedimento nella costruzione del corpus letterario-filmico: i riferimenti convergono soprattutto su due autori, George Romero e Max Brooks (e in particolare War World Z, più che le altre produzioni come The Zombie Survival Guide), gli autori in cui il simbolismo storico-politico è più scoperto. E non pare scorretto affermare che senza il romanzo di Brooks (uscito nel 2006 e da cui verrà tratto un film, data di uscita prevista 21.12.2012, ehm) Drezner non avrebbe potuto scrivere il proprio testo, perché è Brooks, non Drezner, ad avere la geniale intuizione di applicare alla narrativa zombi le caratteristiche della storia orale e, simultaneamente, dell’elaborazione del trauma.

Da teorico delle relazioni internazionali, l’autore non è interessato a discutere la fisiologia o l’antropologia del morto vivente (secondo i suoi termini, “la causa”) ma piuttosto il funzionamento di un possibile ‘zombie outbreak’ (in parole povere, “l’effetto”). Così, i due diversi tipi di “infezione” (zombi lenti + infezione dal decorso lento vs zombi capaci di correre/saltare + metamorfosi immediata) producono conseguenze simili ma per motivi diversi, dato che la prima ipotesi (quella lenta) produce una maggior esposizione al contagio,  e una minor capacità di reazione internazionale (frontiere aperte più a lungo, sottovalutazione dell’emergenza sanitaria, etc.).

E con questo esempio capiamo subito dove Drezner vuol andare a parare: l’autore ha nel mirino le teorie utopiche della politica, basate sulla cooperazione internazionale, o sul postulato che le libertà individuali e l’apertura delle frontiere vadano difese sempre e comunque anche di fronte a una minaccia estrema. Si tratta di un’idea già latente nel libro di Brooks, dove le uniche nazioni capaci di reagire efficacemente sono, nell’ordine, gli stati che promuovono politiche attive di apartheid* come Israele e Sudafrica, e le superpotenze militari USA e Russia, quest’ultima peraltro ritornata allo zarismo, mentre le nazioni “utopiche” come l’Islanda sono condannate a essere divorate – letteralmente – dai mostri. L’idea della libera circolazione delle persone tra frontiere, insomma, sarebbe rivelata nella propria falsità dall’ipotesi di un’invasione di zombi. Particolarmente indicativa degli orientamenti di Drezner l’idea che in caso di zombie outbreak non mancherebbero gli stati canaglia pronti ad allearsi con l’esercito del male (inteso qui in senso letterale), o che nelle democrazie liberali  sorgerebbero immediatamente dei movimenti per i“diritti umani degli zombi”. Particolarmente di cattivo gusto la vignetta in cui una protestataria regge il cartello “My dad is a zombie and I love him”, che ricorda le famiglie arcobaleno. Quanto all’ipotesi Al Qaeda, rimando a questo breve horror di produzione francese [FERMI LI’: il link è davvero per stomaci forti, quindi pensateci prima di cliccare. A me in un paio di scene è venuto da vomitare], dove si trova la stessa intuizione.

Capitoli come “The Realpolitik of the living dead” (33-45), del resto, sono particolarmente indicativi del tipo di operazione – pop, certo, e per questo a facile presa – tentata in questo volume.  Prendendo a modello zombi e altre variazioni sempre di ordine soprannaturale viene facile sostenere argomenti in favore della sovranità assoluta, di una sovranità che si definisce – con pericolose analogie storiche – in termini di Stato d’Eccezione. E forse è questo fascino per le situazioni estreme, viste come il vero banco di prova delle nostre vite in tempi di crisi, uno dei veri fattori.

L’identificazione di Drezner è tuttavia a senso unico, strumentale, e non rende conto – secondo me – delle implicazioni più profonde di questo topos narrativo. L’immagine degli zombi – creature ultime, che hanno perso tutto e che, come lo stesso Brooks intuisce nel commentare la battaglia immaginaria di Yonkers – non possono essere spaventate, a me pare indicativa del contesto economico attuale, delle rivolte a venire che spaventano i sonni tranquilli di chi ha ancora un giardino da difendere.

Fonte: The Star

Le implicazioni economiche (già latenti nei primi lavori di Romero) sono invece state sfruttate, in modo opposto, dalla politica del movimento OWS , che ha fatto propria l’immagine  degli zombi in giacca e cravatta – morti viventi che si cibano, metaforicamente, della carne dei più deboli. E sembra di sentirne un’eco anche nei testi in ultima canzone appena pubblicata (in anteprima, il disco uscirà il 6 marzo per la Columbia Records) di Bruce Springsteen, in versi come questi:

 “The greedy thieves who came around
And ate the flesh of everything they found
Whose crimes have gone unpunished now
Who walk the streets as free men now”

E come questi:

“They destroyed our families’ factories and they took our homes / They left our bodies on the planks, the vultures picked our bones / They brought death to my hometown”…

Proprio come gli zombi di Brooks, e senza bisogno che nessuna Al Qaeda li spalleggi.

Insomma, se la politica neo-con usa l’emergenza immaginaria per difendere le politiche reali, questa lettura non è certo l’unica possibile, e molte altre, per spiegare quella che, prima di tutto, resta una piaga dell’immaginario e uno specchio di paure molto reali e molto radicate. Certo, rimane da chiedersi fino a che punto abbia senso applicare la “Realpolitik” a qualcosa di patentemente irreale come un’invasione di zombi. Ma è evidente che, quando si parla di politica hollywoodiana, l’immaginario è più reale della realtà.

*Non mi riferisco alla definizione dell’attuale politica di Israele in termini di apartheid (che è stata mossa da più lati, ma che è argomento controverso e  meriterebbe altro spazio e argomentazioni precise). Mi riferisco proprio agli episodi immaginati di Brooks, per chi ha letto il romanzo.

alleg(o)ria di naufragi

In a spasso tra i libri, this is the end of the world on febbraio 4, 2012 at 2:49 am

Alcuni giorni dopo il disastro della Costa Concordia, hanno cominciato a circolare immagini come questa:

Titanic come Costa Concordia? Probabilmente sì, ma non nel senso in cui lo intendono i numerologi da web, tra improbabili calendari maya e complotti da multisala di periferia. La mia ipotesi è che Costa Concordia e Titanic si assomiglino in quanto produzioni discorsive, in quanto rappresentazioni condivise che entrano nel nostro immaginario sovrapponendosi alle circostanze storiche. Per usare una parola pericolosa, si assomigliano in quanto “sintomi”. Nello scegliere questa espressione, già mi sembra di sentire la più prevedibile delle obiezioni: come si fa a parlare di “sintomo” di fronte a decine tra vittime accertate e dispersi? Ma che un evento sia leggibile come “sintomo” non toglie nulla alla tragedia delle sue morti, o alle sue disastrosi conseguenze ambientali ed economiche. Il problema, anzi è esattamente questo: che funziona come simbolo, nonostante e malgrado la sua portata reale. E che finché lavora sul piano simbolico, finché agisce come un sintomo, siamo impossibilitati ad agire. Ma facciamo un passo indietro di un secolo, a un altro mondo.

1. Eventi e sintomi

Già nel 1989, nel libro della sua consacrazione, The Sublime Object of Ideology, Slavoj Žižek rifletteva sulle rappresentazioni condivise di eventi catastrofici. Da dove ritorna il Rimosso, si chiede il teorico, parafrasando Lacan? “Dal futuro”, è la laconica risposta. Ed è proprio il “nodo di significati” racchiuso nel naufragio del Titanic a offrirgli l’esempio di questo “ritorno del rimosso”: con l’affondamento dell’inaffondabile Titanic, “l’impossibile era accaduto”, il “futuro” era arrivato.

Il naufragio della nave da crociera più grande del mondo era stato previsto, infatti, quasi letteralmente, da un romanzo di Morgan Robertson nel 1898, suggestivamente intitolato Futility. Le cause dell’impatto (la collisione con un iceberg), le misure della nave, l’insufficienza delle scialuppe, la hybris con cui entrambe le navi erano state dichiarate “inaffondabili”, e, da ultimo, persino il nome (Titan nella finzione, Titanic nella realtà): tutto, o quasi, era stato previsto (2009, 74-75). La coincidenza, naturalmente, non prova le capacità divinatorie degli scrittori (potere che è stato variamente attribuito a qualunque scrittori dotato di lungimiranza o di profonda capacità analitica, a cominciare da Pasolini); esso prova però che la letteratura (così come il cinema, l’arte, e la produzione di immaginario in senso lato) può generare gli orizzonti di senso, le iscrizioni simboliche in cui gli eventi reali trovano posto. Il Titanic, insomma, si inscrive nell’immaginario collettivo come una tragedia di quel tipo perché c’è un orizzonte pronto ad accoglierlo e a modellarne la ricezione; e questo orizzonte è talmente consolidato da aver dato origine, prima del fatto, a sue proiezioni letterarie. Usando le dirette parole dell’autore:

A cavallo tra i due secoli, era ormai parte dello Zeitgest che una certa epoca stesse per volgere al termine (l’epoca del progresso pacifico, di distinzioni di classe ben definite e stabili, e via dicendo). […] Nuovi pericoli aleggiavano nell’aria (movimenti sindacali, l’erompere del nazionalismo, l’antisemitismo, il pericolo della guerra) che avrebbero ben presto contaminato l’immagine idilliaca della civiltà occidentale, liberandone il potenziale di “barbarie”. E se c’è un fenomeno che, al volger del secolo, simboleggiava la fine di quest’epoca, si trattava appunto dei grandi transatlantici: palazzi galleggianti, meraviglie del progresso tecnico, macchine incredibilmente complicate e ben funzionanti; e, al tempo stesso, luoghi d’incontro per la crème della società: un microcosmo della struttura sociale, che offriva ’immagine della società non come essa appariva realmente, ma come essa avrebbe voluto apparire per risultare “piacevole:, una totalità stabile con distinzioni di classe ben definite e via dicendo – in breve, l’ego-ideale della società (2009, 75-76)

Per il teorico sloveno, dunque sarebbe stato proprio questo insieme di sovra-determinazioni, e non la portata effettivamente catastrofica dell’evento a giustificarne la ricezione traumatica: l’affondamento del Titanic “fu letto come un simbolo, come una rappresentazione condensata e metaforica del disastro della catastrofe della civiltà europea in quanto tale” (2000, 76). “Siamo soliti dire che la seducente presenza della Cosa ne oscura il significato”, sostiene Žižek, affrettandosi però a dire che, nel caso del Titanic, “è vero il contrario: il significato oscura il terribile impatto della pura presenza” (2009, 77). Il “futuro” preesiste dunque all’evento, condizionandone la nostra interpretazione e ricezione storica.  Si tratta di una riflessione importante, che illumina sui rischi di un’immaginazione apocalittica che si limiti a riproporre immagini e scenari di un “trauma” già avvenuto, oscurando così la nostra comprensione del presente.

2. Economie colate a picco

La situazione che permette al Titanic di diventare “sintomo” è, in nuce, simile a quella vissuta oggi dalla Costa Concordia, almeno stando ai fotomontaggi amatoriali diffusi su blog e social media. E in un recente intervento (Naufrage avec spectateurs… essai de psychanalyse d’un point de vue médiatique…) leggibile qui, lo studioso francese Olivier Beuvelet ha proposto una lettura simile :

Questa fissazione francese (ma, a quanto pare, anche italiana) per la figura del ”naufragio con spettatore” è dunque un sintomo, la cui natura è resa evidente dal suo carattere ripetitivo ed emblematico; un sintomo che ci presenta ben altro da ciò che si ritiene messo in gioco dall’immagine, nel contesto della copertura mediatica dell’evento. Lungi dall’informare, mi sembra che le prodezze estetiche dei fotografi e la fascinazione condivisa per il relitto visto dalla terraferma, insite in queste immagini, abbiano un altro scopo, che manifestino qualcosa di diverso.

Un sintomo, dunque, ma di che cosa? Del tracollo della nostra società, a cominciare proprio dalle nostre inaffondabili e titaniche economie e dalle nostre fortezze galleggianti. L’immagine del naufragio nel cuore del Mediterraneo, per Beuvelet, viene dunque a sovrapporsi ai numerosi tracolli finanziari e agli scandali che dal 2008 si susseguono senza posa. “Per come le cose sono state presentate, Schettino starebbe alla Costa come Nick Leeson alla Barings, o Jérôme Kerviel alla Société Générale: un dipendente azzardato e incosciente”, scrive infatti il teorico francese. E ancora:

Dopo la crisi del 2008 che ha visto la Lehmann Brothers colare a picco sotto gli occhi del governo americano, i naufragi economici sono stati numerosi, e l’idea che la stessa Nave dello Stato possa dichiarare fallimento, o affondare sotto gli assalti delle tempeste speculative, sommersa dal debito, non è più solo un incubo : è un orizzonte concreto per molti paesi. La perdita del rating AAA per la Francia, all’indomani di quel naufragio nel Mediterraneo, avrà solo dato materiale alle rappresentazioni del relitto della Costa Concordia, a questa strana fissazione per quell’immensa casa galleggiante, una sorta di memento mori mediterraneo e vittima propiziatoria per la zona Euro : rallegriamoci, finché stiamo sulla terraferma!

Beuvelet, nel suo articolo, fa esplicito riferimento a Hans Blumenberg e al suo celebre Naufragio con spettatore [1979], il libro in cui il paradigma del “naufragio” è indagato nella sua rilevanza simbolica e filosofica, fin dal suo uso originario da parte di Lucrezio. Tanto più colpisce, allora, che il teorico francese non citi il passo in cui Blumenberg fa diretto riferimento al Titanic. Ne riporto uno stralcio qui di seguito:

In termini quantitativi, il diciannovesimo secolo è stata senz’altro l’epoca dei naufragi. Fino all’affondamento del Titanic, la forza della natura si è manifestata in modo più convincente che mai; nel diciannovesimo secolo, la sola Inghilterra perdeva più di 5000 uomini all’anno per affondamenti; al largo delle coste britanniche ci furono 700 naufragi nei primi sei mesi del 1880, e 919 nei primi sei mesi del 1881 – in memoria dei quali J.M.W. Turner pose un ultimo, fiero monumento dello struggersi romantico per la morte (1997, 67).

Il disastro del Titanic è la “catastrofe” per eccellenza esattamente in quanto appartiene all’ordine naturale delle cose. Il potere di metaforizzazione prevale su quello della realtà proprio grazie all’ineliminabile violenza di quest’ultima: “A dispetto di questa realtà”, osserva Blumenberg, “l’ambito metaforico del naufragio è stato interamente occupato dalla nuova emergente realtà storica contro l’impegno vivente” (1997, 67). Una visione che, sia pure in termini diversi, non è troppo lontana dalla lettura sintomatica applicata da Zizek.

3. “Fuor del pelago a la riva”

La metafora blumenberghiana ha però un vantaggio innegabile: è una metafora a due termini, che non descrive lo stabilirsi di un’icona, ma lo stabilirsi di un tipo di relazione, di una fenomenologia dello sguardo. Il problema, in pratica, non è solo di capire che cosa rappresenti l’affondamento del ‘Titano inaffondabile’, ma anche chi sia lo “spettatore di naufragi” per eccellenza.

Si tratta di una figura soggetta a evoluzioni storiche, come ha appunto dimostrato Blumenberg, la cui fortuna ricorre sempre in epoche crisi cognitiva ed etica di fronte a una catastrofe percepita come imminente. Anche noi viviamo in un’epoca simile, come testimonia il suo reimpiego per definire la funzione dell’intellettuale (e rimando a considerazioni fatte altrove sul recente libro di Raffaele Liucci), e come testimonia l’altro genere di fotografie e icone su cui vorrei soffermarmi.

Immagini virali, spesso condivise su social network e fonte di sdegno condiviso; immagini in cui – per fortuna — non si contempla la furia della tempesta o il panico o nemmeno la propria impotenza, ma la traccia , depotenziata e apparentemente inoffensiva, dell’evento; il relitto, ciò che resta della catastrofe. Beati, e quasi ipnotizzati dalla sua monumentale bellezza. Anche se con le dovute differenze – perché in esse vi è stupido esibizionismo e narcisismo – queste immagini sembrano almeno in parte avvalorare l’ipotesi espressa da Beuvelet sul modo in cui ci definiremo « spettatori » della Costa Concordia negli anni a venire :

In Francia, dunque, ci ricorderemo di questo naufragio a partire dalla nostra relazione di spettatori sulla terra ferma che guardano una  alla , e non come passeggeri che cercano l’uscita in preda al panico, né come voyeurs che guardano gli altri mentre tentano di scappare…. La Costa Concordia, contrariamente al Titanic rivisto da James Cameron, non sarà il luogo del panico totale, ma un bel relitto adagiato sotto la luna. E noi la contempleremo come dei semplici curiosi innocenti, giunti dopo la tempesta a godere della visione del naufragio.

Che la visione del naufragio sia oggetto di godimento, lo prova  la dedizione con cui artisti e produttori di immagini ripropongono le immagini della catastrofe: pittori di naufragi à la Turner, fotografi professionisti, photoshoppers casalinghi, tutto alimenta la nostra estasi di fronte alle rovine – oggi più che mai tossiche e deturpanti – della nave che affonda.

Vorrei chiudere questa riflessione su un’immagine diversa, che incarna la stessa posizione da un punto di vista “critico”.  Si tratta di un dipinto francese di primo Ottocento. L’immagine (che non riproduco per questioni di copyright, ma che potete vedere qui) rappresenta una nave in tempesta, sulla quale un uomo assiste alla potenza dei marosi facendosi legare all’albero maestro della nave.

L’uomo in questione è Joseph Vernet (Avignone 1714 – Parigi 1789, due date che già sono un sintomo quelle), ed è uno dei principali pittori di paesaggio del XVIII secolo, specializzato fra l’altro in rovine, marine e naufragi. Il quadro è stato dipinto dal nipote Horace Vernet, si intitola Joseph Vernet attaché à un mât étudie les effets de la tempête ed è conservato al Musée Calvet di Avignone. Il quadro rappresenta la trasposizione pittorica di un episodio biografico testimoniato da varie fonti e successivamente diventato un luogo comune della cultura pittorica di primo Ottocento. Secondo la ricostruzione dello storico dell’arte George Levitine, è proprio la mediazione pittorica del nipote (a propria volta esponente di rilievo della pittura napoleonica) a riguadagnare fama e reputazione al nonno, le cui quotazioni artistiche erano inevitabilmente scese col mutare delle mode.

L’episodio diventa così un simbolo, ma solo a patto di modificarne drasticamente la cornice di ricezione. L’immagine di Joseph Vernet legato tra i flutti passa infatti a designare due atteggiamenti molto diversi in breve tempo: dall’esaltazione dell’artista borghese o del “curioso” (per riprendere i termini di Beuvelet), che decide di osservare la natura sul modello pliniano dello scienziato-eroe, si passa all’icona dell’artista romantico che si espone volontariamente al pericolo pur di interpretare fino in fondo la propria missione artistica (Levitine 1967, 99-100).  Ad aggiungere ulteriori risonanze all’episodio, sta il fatto che – come d’altra parte Blumenberg rileva – la metafora del naufragio appartiene alla retorica della Rivoluzione Francese, secondo cui il vero simbolo di morte è la bonaccia (la stabilità che uccide la politica rivoluzionaria), mentre la tempesta, incarnazione della Storia, rappresenta il rischio da correre se si vuole produrre un cambiamento. E se guardiamo le date di nascita e di morte del pittore ivi ritratto (1714-1789), non ci stupisce che questa immagine si sia caricata di valori affini alla prospettiva utopica della Rivoluzione.

Per noi che la osserviamo all’alba del nuovo millennio, all’indomani di un nuovo naufragio, l’immagine di Joseph Vernet legato all’albero della nave mantiene una sostanziale ambivalenza: ci riporta allo scacco illuministico giocato da Ulisse alle sirene, figura del coraggio di un’arte disposta a guardare in faccia la catastrofe, ma è allo stesso tempo il simbolo dell’impotenza degli artisti, costretti a rimanere spettatori di un dramma in cui non hanno parte. Ed è, ancora, un’immagine ambivalente rispetto al nostro sguardo sulla storia, stretta com’è tra il rischio di un utopismo chiuso, che restringe lo sguardo a ciò che si sa già come vedere (il pittore che diventa personaggio del proprio quadro) e il potenziale liberatorio di un messianismo capace di orientare la nostra azione a un futuro successivo alla catastrofe. Il naufragio può dunque diventare una dichiarazione di principio sullo stato delle pratiche artistiche, quasi che, per l’artista (e, per tralsato, l’intellettuale o lo scrittore) non fosse possibile rappresentarsi se non in rapporto alla catastrofe: stretto per sempre tra l’impossibilità di agire sull‘evento (ciò che altri hanno classificato come “inesperienza”), o, all’estremo opposto, l’obbligo di farsi spettatore fino alla morte. Ed è proprio inserendosi nella figura e rifiutando di “restare a riva”, che il pittore può produrre uno sguardo auto-inclusivo sul proprio tempo: una circolarità artistica che tende, almeno idealmente, a spezzare l’incanto della Medusa.

Disclaimer: le traduzioni dal francese e dall’inglese sono mie. Sono costretta a leggere il testo di Blumenberg  nella traduzione inglese di U of Chicago Press del 1997:  trattandosi di una traduzione da una traduzione, quel passo potrebbe contenere errori e inesattezze di cui mi scuso.

Credits: Grazie a Flavio Pintarelli per aver condiviso l’analisi di Olivier Beuvelet, altrimenti non mi sarebbe mai capitata tra le mani.

lo scrittore, il futuro, la speranza. un talk di william gibson

In a spasso tra i libri, attitudine popular, canadian bacon, this is the end of the world on gennaio 12, 2012 at 11:27 PM

Si parla di fine del mondo e la sala ride. Succede quando l’autore di fantascienza che, per molti, è semplicemente colui che “previde Internet” invita la platea a non attendersi risposte, programmi politici o soluzioni da uno scrittore. Un autore di genere che invita il pubblico a non prenderlo sul serio, e ne viene puntualmente obbedito: cose che succedono solo a Toronto, forse l’unico angolo del globo dove ancora si nasconde, ormai braccato, un po’ di postmoderno.

A conversare con William Gibson, alla Toronto Reference Library, c’è Robert J. Sawyer, e l’incontro diventa subito un “confronto” amichevole tra due pesi massimi della fantascienza nazionale – anche se, per la verità, Gibson è nato in South Carolina (ma non lo dà a vedere) ed è emigrato in Canada negli anni ’60 per sfuggire al draft.

Gibson presenta la sua ultima opera, Distrust That Particular Flavor, una raccolta di saggi pubblicati nel corso della sua attività. Scritti d’occasione o “fallimenti”, come l’introduzione mai consegnata a La macchina del tempo di H. G. Wells («era troppo personale, parlava di me e non di Wells»), per tutti gli scritti Gibson confessa di sentirsi a disagio: si tratta di violazioni all’unica regola che abbia mai davvero osservato, quella di scrivere solo fiction. Eppure l’aspetto autobiografico (che, fra tutti i registri della non-fiction, è quello verso cui l’autore si dichiara maggiormente in imbarazzo) affiora spesso nel corso della conversazione, per esempio quando Gibson fa risalire le origini della propria fascinazione per il genere a un’infanzia costellata di fantascienza, sia scritta, sia narrata dalle immagini (video, packaging, fumetti).

L’intera conversazione è ingombra dei molti futuri che le precedenti generazioni si sono lasciate le spalle. Si va dalla fantascienza anni ‘40 (ancora legata a doppio filo alle memorie della guerra appena combattuta) al terrore nucleare degli anni ’80 («è incredibile la rapidità con cui l’abbiamo dimenticato»). Del resto, ci dice Gibson, la fantascienza parla sempre del particolare futuro dell’epoca che l’ha prodotta: non c’è futuro più credibile di quello che viviamo, o che abbiamo già vissuto. A titolo di esempio, lo scrittore riporta le invenzioni del suo libro più famoso, le cui strutture socio-economiche sono una Reaganomics portata alle estreme conseguenze («a Reaganomics with volume turned 11») e la cui organizzazione malavitosa è modellata sul sottobosco criminale d’epoca vittoriana, col suo “apprendistato” e le sue “gilde”.

In questa rassegna di futuri arrugginiti, la tecnologia è sempre l’elemento dominante: “i cambiamenti culturali sono una conseguenza di quelli tecnologici”, afferma Gibson, quasi riecheggiando McLuhan. E ancora, il padre dello steampunk prende ad esempio l’invenzione del motore a due tempi (1881) per dimostrare come nel nostro mondo la tecnologia (intesa come applicazione concreta, avulsa da qualsiasi riflessione sulle sue possibili conseguenze) prevalga su qualsiasi regolamentazione e normatività.

Ma a chi gli chiede se l’avvento dello sprawl sia inarrestabile, o come salvarsi dalla nuova minaccia apocalittica del riscaldamento globale, Gibson risponde col rifiuto di ruoli messianici e salvifici. Così come rifiuta l’etichetta di autore distopico: «I miei lavori sono pieni di ottimismo. Negli anni Ottanta, pensavamo che il mondo fosse sull’orlo dell’olocausto nucleare, eppure io ho deliberatamente scelto di ambientare Neuromancer in un continuum dove ciò non fosse accaduto», dichiara scatenando l’ilarità generale. Ma lo scrittore è velocissimo a riportare il silenzio in sala: «molta gente oggi vive – e trascorrerà la totalità della propria breve e miserabile vita – in condizioni di gran lunga peggiori di qualsiasi “distopia” io possa mai aver immaginato». E conclude, dopo una pausa: «La vera distopia è proprio questa».

Una scrittura consapevole, insomma, della propria distanza dalla realtà, e poco incline a trasformarsi – malgrado l’insistenza di chi la vorrebbe futurologia a tutti i costi – nella promessa di una salvezza o nello spettacolo di un vaticinio. Perciò, al ragazzo che, un po’ enfaticamente, gli chiede di dare alla sua generazione qualunque cosa utile a sopravvivere, Gibson replica: «Sono uno scrittore. Tutto quel che posso darti è un po’ di speranza».

enjoy! (finché dura)

In attitudine popular, cinema, generazioni, this is the end of the world on dicembre 10, 2011 at 8:38 PM

Questa recensione è uno spoiler, nel senso che oltre a togliere ogni possibile dubbio sul finale del film di cui parlo Melancholia (2011), ne rivela anche diversi episodi di rilievo. Ma a voler essere rigorosi, il film è in partenza uno spoiler di se stesso, dato che anticipa il proprio finale e le proprie sequenze salienti nelle spettacolari e nelle sequenze d’apertura, dei veri e propri tableaux vivants che raffigurano la Passione del Mondo in slow motion, stazione dopo stazione. È lo stesso Lars von Trier, del resto, che ritiene necessario rivelare da subito la conclusione (“una specie di lieto fine”, come la definisce non senza una notevole dose di ironia) per evitare che il lettore sia distratto dalla suspence:

 Indeed the ending was what was in place from the outset when he started to work on the idea of ‘Melancholia’, just as he immediately knew that the audience needed to know it from the first images of the film.
«It was the same thing with ‘Titanic‘,« he says as he assumes his favourite interview pose, lying on the faded green cushions on his exuberant couch, arms flung over his head. »When they board the ship, you just know: aw, something with an iceberg will probably turn up. And it is my thesis that most films are like that, really.»

Da Longing for the End of All, intervista di Nils Thorsen (leggibile per intero qui)

Trattando della “fine del mondo”, Melancholia è facilmente ascrivibile alla categoria della fantascienza. Eppure verrebbe voglia di far proprie le riserve che Margaret Atwood, nel suo recentissimo In other worlds (Signal 2011), esprime sulla propria opera, dichiarandosi creatrice di mondi e di finzioni, ma non di finzioni “scientifiche”. Così anche Von Trier, che si astiene dal giocare con i registri della verosimiglianza scientifica e della verità, ma prende la visione dell’apocalisse a fondamento di una riflessione sull’uomo e sulla fragilità della sua psicologia.

Tuttavia, il fatto che un film come questo si occupi della fine del mondo esprime qualcosa d’importante sul nostro presente. In primo luogo, racconta della nostra percezione di civiltà al collasso, la nostra ansia apocalittica (tema esplorato da molti in questi anni, compreso un autore come Zizek nel suo Living in the end times, Verso 2010, ora disponibile in italiano per i tipi di Neri Pozza). Quasi che dall’“Enjoy!” di capitalistica e post-moderna memoria sia ormai indispensabile passare a un “Enjoy it while it lasts!”, consapevoli che non durerà ancora a lungo. Non è un caso, dunque, che Melancholia rappresenti la fine del mondo come un’accettazione – risparmiandoci le corse contro il tempo alla Armageddon, le astronavi in fuga verso l’ignoto e le immancabili derive complottiste della fantascienza apocalittica propriamente intesa. La fine del mondo è già tra noi, e non è qualcosa che sia in nostro potere impedire.

In secondo luogo, colpisce il fatto che la fine del mondo sia narrata non con le modalità di un “dramma fantascientifico”, ma con quelle di un dramma familiare (e l’ispirazione dichiarata è a Le serve di Genet). Certamente questa scelta ha origine nella genesi stessa del film – la volontà di Von Trier di esplorare un aspetto sociale della malattia, il fatto che “i depressi siano più calmi nelle situazioni di emergenza perché hanno già delle aspettative negative sul futuro”. I depressi vivono in una condizione che è già un’apocalisse permanente – tanto più ora che mezzo mondo occidentale sembra vivere in una sindrome da stress post-traumatico. L’etica dei depressi – impietosamente dimostrata da una sequenza del film – è che il mondo in cui viviamo è già cenere. Nessun inferno può essere peggiore di così. Ed è certamente quel che prova Justine (interpretata dall’incredibile Kirsten Dunst)– nome ispirato alla creatura di Sade, ma anche evocativo di Juno, Jupiter, e della giustizia personificata –, trasfigurata in un simbolo sotto la fredda luce dell’altro pianeta. Ma in questo contesto, Melancholia diventa anche una parabola sulla nostra assenza di misura e il nostro antropocentrismo “I promise it won’t hit Earth”, dice il personaggio di John  (interpretato da Kiefer Sutherland) a Claire, come  le traiettorie degli astri dipendessero dai calcoli degli scienziati. E da questo punto di vista, il grande merito del film è la sua capacità continua di scivolare tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra macrocosmo e microcosmo. Ed ecco che una patologia percettiva (la mancanza di empatia sociale, l’incapacità di percepire le realtà intermedie) permette di raggiungere un risultato filosofico: restituire allo sguardo quell’extra-mondità che sola può guarire la nostra «démesure».

Melancholia è un film troppo bello e troppo brutto allo stesso tempo. È un film “brutto”, che non scorre, le cui siderali lunghezze ci mettono a disagio, un film sconnesso, fatto di due parti asimmetriche e in collisione – come i pianeti di cui narra, come le due sorelle Justine e Claire, come il macrocosmo e il microcosmo chiamati a specchiarsi l’uno nell’altro. Ma è anche un film eccessivamente bello, estetizzante, che usa la lucida compiutezza dell’immagine per dire ciò che non si può dire – fino al nero che conclude il tutto: il non-detto come unico spazio per l’assenza di futuro. E il futuro è un registro ambiguo, a metà fra l’onirico e il trasfigurato (i due modi con cui la narrativa, filmica o letteraria, riesce a dire la catastrofe, ad affrontare, mediante la trama di infiniti “mondi possibili”, la sfida di dire il nostro “poterci non essere”, la radiazione di fondo emessa dal nostro possibile morire.

Non esistono piani intermedi tra quello cosmico (dove il tempo eccede qualsiasi possibilità di immaginazione umana) e quello dei piccoli conflitti interni all’individuo (conflitti tra la rappresentazione sociale e il dolore esperito dall’individuo, conflitti tra membri della stessa famiglia, ma anche conflitti tra semantiche, tra significati apparenti e implicazioni latenti). I personaggi obbediscono a impulsi propri, bambole meccaniche di un universo chiuso e auto-alimentato. Un universo in cui non occorre provvedere alle necessità materiali, in cui l’onnipresenza del denaro è segnalata in primo luogo dalla sua invisibilità; come una corrente segreta e sotterranea, il denaro e il lusso, uniti a una raffinatissima e decadente assenza di gusto, modellano i rapporti tra le persone, si sostituiscono ai flussi di empatia.

Eppure, sembra dirci il film (soprattutto alcune inquadrature, come la scena in cui due globi di marmo, accostati tra loro, suggeriscono l’impatto delle sfere celesti) l’immensità del nostro cosmo è tutta racchiusa nel nostro microcosmo, se solo fossimo capaci di leggerne le nervature e le simmetrie; e davvero la fine del mondo ci colpirà così, inconsapevoli fino all’ultimo, persi nei giardini segreti della nostra anima mentre tutto intorno il mondo si prepara a esplode e ritorna al suo silenzio primigenio.