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in difesa dell’ironia

In a spasso tra i libri, attitudine popular, educazione, repubblica delle lettere, this is the end of the world on novembre 19, 2012 at 10:56 PM

Parodia di Hipster. Fonte: Chicagoshows.wordpress.com

Alcuni giorni fa, sulla rubrica The opinionator, il New York Times ha pubblicato un lungo e polemico articolo contro l’ironia di Cristy Wampole, Assistant Professor di Francese a Princeton. L’autrice denuncia in modo appassionato e retoricamente efficace l’attitudine alla distanza dei suoi coetanei, e auspica che ci si liberi dall’ironia, dalla tendenza a evitare qualsiasi presa di posizione seria, tornando a un ethos non più ‘reattivo’ ma ‘attivo’. Si può capire come queste parole, che suonano come un incitamento al rigore e all’impegno, siano suonate condivisibili e persino ‘rinfrescanti’ nel gruppo di coetanei (per lo più con aspirazioni intellettuali) che frequento. Pur condividendo l’assunto etico di fondo, nel proseguire la lettura non ho però potuto reprimere un crescente senso di perplessità.

Sarà che il mio è un osservatorio limitato, per cui non conosco molti hipsters. Sarà che leggo molte notizie di politica, sia italiana sia internazionale, per cui mi pare che ‘disperazione’ e ‘incazzatura’ siano termini più accurati di ‘ironia’ e ‘presa di distanze’ per descrivere l’atteggiamento della generazione mia coetanea. Probabilmente il mio punto di vista è provinciale; ma a me pare che occuparsi in tale dettaglio di come una certa ironia (falsa ironia, la chiamerei io) ci impedisca di prendere posizione sul presente sia una contraddizione in termini.

Più precisamente, a me sembra che l’ironia descritta dall’autrice sia un atteggiamento molto diffuso all’interno di una data cerchia o di una precisa classe sociale, ma non rappresentativo di un’intera generazione – cosa che diversi lettori non hanno mancato di notare nella sezione dei commenti. Con buona pace dei pochi di noi che abitano una bolla accademico-artistico-culturale oppure hanno la fortuna di svolgere lavori creativi (il pubblicitario, il ricercatore universitario, il giornalista e consimili), la maggior parte delle persone vive senza necessariamente simulare, si preoccupa per il proprio presente e futuro, ascolta la musica che ritiene di trovare gradevole e, se parla, pensa di dire ciò che sta dicendo (anche quando in realtà sta dicendo qualcos’altro). E non perché siano ‘infantili’; al contrario, perché a differenza di noi sono “adulti veri” che vivono nel “mondo reale”. Ma questo non è necessariamente un bene, come la stessa retorica del “mondo reale” (usata per incolpare intere classi sociali del loro destino) dimostra.

***

Personalmente amo l’ironia, e non credo che tutte le risate siano ridanciane, inutili o idiote. Ci sono risate che feriscono e risate che mordono. Se così non fosse, ad esempio, il sarcasmo non sarebbe considerato un peccato capitale (come invece è, almeno qui in Nordamerica, e comprensibilmente: perché il sarcasmo è un modo di mostrare i muscoli, sia pure quelli del cervello). C’è una grande enfasi, nella cultura letteraria di oggi, sul bisogno di ‘serietà’. Così, mentre il web pullula di meme e immagini assurdamente ridanciane, mentre il potere governa mediante un uso oppressivo della risata, e mentre la continua osmosi tra lavoro e piacere rende alcuni di noi incapaci di rendersi conto della reale abolizione di diritti e tutele, la parte più “consapevole” della nostra società si dà da fare per promuovere forme pulite e quasi edulcorate di humour. Nel frattempo, tra gli intellettuali si predica a gran voce la morte del postmoderno e il ritorno dell’impegno: a volte in via solo teorica e intellettuale, a volte anche in modo concreto, piantando gazebi e dipingendo cartelli. Pur riconoscendo il valore culturale di alcune battaglie (quella per il politically correct, ad esempio) io non credo che un’eventuale vittoria della serietà e della correttezza ci renderebbe necessariamente più liberi o consapevoli.

A mio avviso l’autrice pecca di ingenuità quando identifica l’ironia con un particolare tipo di ironia: quella che lei esemplifica con la posa artefatta dei nuovi “hipster”. Credo che in questo senso la sua formazione letteraria, di studiosa della narrativa post-moderna, possa essere fuorviante. Perché quando leggo una frase come “It stems in part from the belief that this generation has little to offer in terms of culture, that everything has already been done, or that serious commitment to any belief will eventually be subsumed by an opposing belief, rendering the first laughable at best and contemptible at worst,”* mi ritrovo immediatamente trasportata in un ethos filosofico politico di vent’anni fa, dove il picco petrolifero non è nemmeno contemplato, il debito non esiste e il radicalismo politico nemmeno. Siamo ancora dalle parti del dibattito sul postmoderno: un dibattito formulato a livello internazionale (penso alla mostra londinese Postmodernism: Style and Subversion 1970–1990, tenuta nell’autunno del 2011 al Victoria and Albert Museum), e che, nel nostro piccolo, è arrivato anche in Italia, dal dibattito sul New Italian Epic (2008-2010) al dibattito filosofico sul New Realism recentemente animato da Ferraris e Vattimo.

Io credo che non si debba rigettare l’ironia, ma fare qualche utile distinzione, perché nell’appropriazione ridanciana di miti e modelli consumisti non c’è nulla di profondamente ironico. Quella che Wampole descrive nel suo articolo non è ironia, ma una perversione dell’ironia. La caricature di hipster che abita il nuovo secolo (di cui si può leggere un profilo tanto caustico quanto famoso qui) deve prendersi gioco della musica commerciale perché la ama, o perché a dispetto della sua costosa educazione, è culturalmente succube della cultura pop. I nuovi hipster che affollano le strade di Williamsburg e che si considerano trendsetter sono consumatori culturali all’ennesima potenza; ma oggi siamo tutti consumatori culturali, a vari livelli, ed è per questo che il loro atteggiamento estremo ci risulta tanto familiare.

In questo contesto, l’ironia è, o forse dovrebbe essere, la capacità di dirsi produttori, anziché consumatori, di cultura. Di cambiare non il canale, ma il terreno della ricezione. Di usare i linguaggi correnti per formulare un nuovo linguaggio. Non un nuovo messaggio, si badi: questo lo fanno tutti, anche i pubblicitari. Formulare un nuovo linguaggio è, invece, una cosa difficilissima, che è riuscita a pochissimi, solo ai più grandi tra gli scrittori. Italo Calvino, per dirne uno.

***

E in Italia? Nel Bel Paese, si sa, siamo malati di umorismo, di macchiettismo, di ironia. Alle peggiori schifezze della nostra classe dirigente reagiamo facendo ‘battute’, sentendoci dei tanti piccoli Totò. La classe politica a propria volta non ritiene di dover governare, assumendosi apertamente la responsabilità della propria macelleria sociale, ma si esprime per battute, scatenando ondate di indignazione a costo zero – dai bamboccioni ai choosy, perfetti equivalenti culturali del ‘que se jodan’ spagnolo.

Se c’è un paese dove in apparenza il Governo Della Risata si è esercitato con pervasiva violenza, questo paese è l’Italia. C’è stato un periodo in cui addirittura si decretava la morte della satira che – si diceva – sarebbe stata superata dalla realtà (effettivamente scene come quelle di un Calderoli che, nel 2006, definiva la propria legge elettorale “una porcata” sembravano tratte dal “Cuore” dei tempi d’oro).

Vignazia ’12

A volte mi capita di chiedermi se l’ironia (o l’antifrasi, che dell’ironia è parente stretta) sia inadeguata a descrivere la repressione delle piazze nel 14 novembre, o l’arroganza della classe dirigente italiana. E credo che nella loro forza comica, le forme di  satira non siano inadeguate, a differenza delle tante petizioni e forme varie di clicktivismo e indignazione mediata. Perché denunciano, tra le altre cose, uno stato di linguaggio in cui “le cose non sono le cose,” per cui

l’antifrasi diventa l’unico modo possibile di relazionarsi al potere. Certo non basta fare battute e scrivere satire. Ma nella satira si può annidare un profondo germe di ribellione, e sarebbe ingenuo – oltre che controproducente – volersene privare.  E penso al senso di sconcerto che ho provato la prima volta che ho visto una finta pubblicità di Adbusters. Me lo ricordo: fu a Firenze, alla Fortezza da Basso, nei giorni del FSE del 2002 (un luogo non particolarmente ironico, bisogna riconoscerlo). Guardando gli enormi banner finti di Mc Donald’s sventolare dal soffitto, mi ci vollero un paio di secondi per capire che si trattava di una parodia, eppure mi rimase un senso di disagio addosso ancora per qualche minuto.

Siamo sicuri che questa ironia sia la stessa dell’hipster che se ne va in giro con la maglietta di Justin Bieber, si veste da SuperMario per Halloween e afferma di amare la musica di Katy Perry perché è, oh, so shitty? Ne dubito fortemente.

Io credo che alcune di queste rappresentazioni antifrastiche, ironiche o parodiche siano  frutto di impotenza – la stessa impotenza che ha animato per secoli le pasquinate, i carnevali, e persino le uccisioni in effigie di tiranni, duci e ducetti. Ma l’impotenza di chi subisce la violenza della storia e non ha altro rifugio che lo sberleffo non è necessariamente la stessa di chi si immagina inerte e passivo, e usa l’ironia come una coperta per continuare a nascondersi. Gridare che i lacrimogeni non rimbalzano su Marte è gridare che il re è nudo: vuol dire denunciare l’assurdità che è già al potere e che ci governa, pretendendo di farci dire che due più due fa cinque.

Per questo anche noi italiani non dobbiamo essere per forza contro l’ironia: ci basterebbe liberarla dall’autocommiserazione, dalla passività, dal narcisismo generazionale e dalla mercificazione, per tornare a usarla come uno strumento verace, violento, disarmonico. Perché l’ironia non è accettazione ridanciana del reale. Questo è ciò di cui ci hanno convinto per vent’anni. Ma l’ironia è altro. È soprattutto distanza: e come tale è una difesa potentissima da quel meccanismo di commercializzazione che, a ritmo sempre più vertiginoso, si appropria di tutte le narrazioni, e soprattutto di quelle serie, ontologicamente ingenue, e cioè di quelle con un messaggio sociale chiaro, rassicurante, impegnato e inquadrabile.

Se un dovere hanno oggi gli artisti e gli intellettuali, è precisamente quello di produrre opere brutte, dissacranti, urticanti, opere che facciano letteralmente schifo –   non in qualche modo esteticamente accettabile, ma che ci disgustino e ci rivoltino nell’intimo, che ci sveglino e impediscano in ogni modo di provare piacere. Opere che suscitino in noi un senso di terrore e di violazione, opere che ci spingano a dubitare, con un brivido, della loro finzionalità, invece di presentarsi arrogantemente, e contraddittoriamente, come “reali”. Opere che siano imprendibili, immistificabili, proteiformi. E quindi sì, anche ironiche, se ciò serve a evitarne il consumo.

Guardatevi, piuttosto, dalle narrative ‘impegnate’: producono assuefazione.

***

*Traduzione: [questo atteggiamento deriva, almeno in parte, dalla convinzione che questa generazione abbia ben poco da offrire in termini culturali, che tutto sia già stato fatto, o che qualsiasi impegno serio sarà, alla fine dei conti, inglobato da una convinzione di segno opposto, che trasformerà l’ideale di partenza in un oggetto ridicolo (nella migliore delle ipotesi) o disprezzabile (nella peggiore)]

Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II, Napoli, venerdì 29 giugno 2012

In a spasso tra i libri, educazione, repubblica delle lettere on giugno 30, 2012 at 1:14 PM

La ragazza è carina, con una massa di capelli lisci castano scuro che le si sciolgono sulla schiena. Ha un sorriso fresco, un corpo appesantito ma sodo, lineamenti belli e generosi. Si fa largo indossando shorts mozzafiato (con questo caldo ci può anche stare) e una borsa da mare di stoffa celeste, grande, che non capisco come sia stata autorizzata all’interno di una Biblioteca  Nazionale, e specificamente di una sezione contenente libri pregiati, cataloghi, manoscritti e rari. Poi mi ricordo che, a differenza dell’ingresso, il passaggio dallo stanzino con gli armadietti alle sale di consultazione non è sorvegliato, per cui il rispetto delle regole enunciate è affidato al buon cuore dell’utente (il che, devo dire, solitamente funziona).

Trascinandosi per la sala, si rivolge in tono lagnoso agli addetti: “Devo fare un’analisi di un film…”

L’addetto, che già di suo non sprizza entusiasmo, la guarda con fare interrogativo.

“Non so proprio cosa devo fare,” finisce di articolare lei.

Il bibliotecario, per fortuna, è uno di quelli all’antica, e non un semplice distributore di libri e giornali. Uno di quelli che magari, di solito, hanno i tempi di reazione di un orso in letargo, ma all’occorrenza si trasformano in supereroi capaci di indirizzare e consigliare anche l’utente più smarrito. “Guardi nella sezione recensioni”, dice alla ragazza, “qui abbiamo un catalogo per soggetto e anche un catalogo di recensioni ordinato per titolo”. Il titolo, già, ammesso che uno se lo ricordi. La ragazza estrae laboriosamente un foglietto con un titolo scarabocchiato. “Sentieri selvaggi”, sillaba. “John Ford”, aggiunge poi.

Vaga tra le diverse cassettiere del catalogo cartaceo per alcuni minuti, con l’aria sperduta. “Allora signorina, ha trovato qualcosa”, domanda il bibliotecario che è tornato dentro a controllare. “No, non trovo niente,” dice lei, contemplando le mattonelle del pavimento.

“Aspè, jà”, esordisce lui. E di sua iniziativa le trova due titoli di critica su John Ford di cui è al corrente. Glieli molla sul tavolo e le manda una collega che l’aiuti a cercare tra i periodici e a compilare i moduli di richiesta. A un certo punto la ragazza, che ha preso confidenza con le cassette, ci espone il problema: “Qui ci sono solo libri con la V e la VU doppia”. Io e un’altra utente ci guardiamo costernate. “Ma scusa, guarda nelle cassettiere di fianco.” “Ah. Non c’è!” risponde stizzita, prima che l’altra utente (che sta evidentemente facendo ricerche su Vittorio Pica e il decadentismo napoletano) si alzi ad additarle, tre cassetti più in là, la cassettiera che inizia per F, effe come Ford.

Entra in azione la seconda bibliotecaria, quella dei periodici. Insieme scoprono che su un qualche numero di Ciak! il film è stato recensito. Casomai, dopo, dice il primo bibliotecario, ritornando. “Comincia da questi”, ordina alla ragazzetta indicandole i libri da lui trovati, “che sono di base”.

La compilazione delle carte (il tutto, s’intende, a toni di voce da pescherie generali), avviene con modalità simili: lei che fa la svampita e gnola rifiutandosi persino di provare a leggere, i bibliotecari che finiscono per compilarle loro carta d’ingresso, moduli e già che ci sono anche la dichiarazione dei redditi per l’anno prossimo. Per tutto il tempo dell’operazione, a tratti lei riprende la tiritera: “Devo fare un’analisi di un film… non so come fare…” e la bibliotecaria le risponde di sì.

Finalmente tutto tace. La ragazza è alle prese con il suo libro. Dopo tre minuti dà di mano al cellulare. “Pronto… Sì sto qui alla Nazionale… guarda, già ho malditesta… una cosa complicatissima… Sì… Sì…”.

La telefonata si interrompe. Altri cinque minuti, un’altra telefonata. “Sì, sto già qua. No, aspè è complicatissimo. Chiamami quando arrivi che ti vengo a prendere io. Sì. Sì. Mamma mia. Vabbùo.” Mette via il telefono. Dopo tre pagine si volta verso di me e mi chiede, “Scusa, posso chiederti una cosa?”.

“Dimmi”.

“Sai se i libri si possono sottolineare?”

Osservo con un’occhiata preoccupata gli evidenziatori multicolori che prorompono dall’astuccio Hello Kitty. “No, assolutamente”, dico io. “Infatti, mi sembrava.” E tira fuori la matita. Intervengo, da brava maestra che non stacca mai: “Scusa ma ti ho appena detto che non vanno sottolineati!”.

“Nemmeno con la matita? Ma perché?” domanda con gli occhi sgranati.

Indovina, mi verrebbe da dire.

“E io come faccio?”

“Prendi appunti. O ti fotocopi le pagine che ti servono. O scendi al piano di sotto e vedi se lo stesso libro da un’altra collezione te lo danno in prestito.” Gli occhi una girandola. “Come, te lo danno in prestito?” (Ricordo che siamo in una biblioteca) “Sei residente?” “Sì”. “Allora chiedi ai bibliotecari, ti spiegano loro come fare”.

“Stai facendo gli orali?”, chiedo poi, per mitigare il teutonico rigore di prima. Sperduta com’è, sembra una ragazzina alle prese con la maturità. Avrei detto l’esame di terza media, se non fosse già quasi luglio.

“No… sono al secondo anno di università,” aggiungendo il nome di una triennale che riguarda, a quanto capisco, le arti, la fotografia e il cinema.

Capitombolo dalla sedia. Al secondo anno di università e non hai mai messo piede in una biblioteca? Non hai mai compilato una scheda di consultazione? Mai usato un catalogo? Ma come si fa a uscire indenni dal primo anno di università senza mai, dico, mai passare da una biblioteca, leggendo solo dispense e appunti evidentemente presi da qualcun altro? Possibile che una persona esca così da tredici anni di scuola (elementare, media, superiore) e almeno uno di università?

La ragazza, che ormai vede in me un volto amico, ne approfitta per sfogarsi e gnolare anche con me.  “Devo fare quest’analisi di un film per un professore… ma lui è pignolo proprio… non vuole che si copi da internet”.

Eh, le tragedie della vita.

Poi un lampo. “Ma tu? La sai fare un’analisi di un film? Mi aiuti tu?”

No, guarda, mi dispiace. Ho da fare. E poi forse non te l’ho detto, ma studio chimica.

PS: Ho trovato, per un euro, a una bancarella, Le parole sono pietre [1955] di Carlo Levi. Bellissimo e a tratti commovente. L’edizione è un tascabile Einaudi, classificata tra le “Letture per la scuola media“. Ricordando che in quella scuola media la maggioranza dei ragazzi italiani non ci imparava molto (nel 1997, quando mi iscrissi alle superiori, l’obbligo scolastico era ai 14 anni e il 40% della popolazione scolastica si fermava al diploma delle medie inferiori), mi rifiuto di far l’elogio dei bei tempi andati o delle scuola di una volta. Ma c’è una forbice, un divario tra la realtà dei molti e l’utopia dei pochi, che se pur ridotta nominalmente, non è stata colmata appieno, dal 1963 ad oggi.

Tales from a different St. Patrick (2)

In attitudine popular, partire o restare, repubblica delle lettere, road post on marzo 21, 2012 at 12:53 am

Il pullman della Greyhound entra nel Coach Terminal di Rochester con una curva larga e svogliata. È in ritardo di pochi minuti, davvero un’inezia se si considera che la St. Patrick’s Parade ha bloccato la circolazione per quasi sei ore. Eppure una viaggiatrice – una signora magra sulla cinquantina, che regge uno zaino da campeggio e un cuscino lilla – è già sul piede di guerra, pronta a catapultarsi a bordo prima ancora che i motori siano spenti, i portelloni aperti, i bagagli della tratta precedente scaricati. L’altoparlante annuncia l’imbarco, ma l’autista, che probabilmente è al volante fin dalla mattina, vorrebbe prendersi una pausa: il tempo di una sigaretta, uno snack, magari una pisciata. Ci chiede di rientrare e di aspettare qualche minuto. È appoggiato contro il muro e si concede il breve lusso di piluccare alcuni mirtilli da una confezione, quando l’agguerrita backpacker sente il bisogno di tornare a chiedergli qualcosa. «I understand that you’re eating your blueberries, but…», fa in tempo a proferire, prima che l’autista la indirizzi verso ben altra destinazione.

Arriva un secondo bus di una compagnia partner e noi passeggeri diretti a Toronto ci veniamo dirottati sopra. Non si capisce perché, dato che dovremo tutti scendere a Buffalo comunque, ma io come un bravo soldatino ordinato monto in castigo sul mio Trailways sfigato, che non ha la wi-fi e che emana odore di cuccia.

Lasciamo Rochester e nel giro di pochi minuti siamo in aperta campagna. Il sole caldo del tardo pomeriggio conferisce un’aura anche al paesaggio spelacchiato dell’Upstate NY. L’erba ha una sfumatura densa e pastosa, le abitazioni agricole (dei barn, costruzioni note all’italiano medio grazie alla grafica di Farmville) sembrano avvolte in una luce cinematografica. È il cielo di Hopper, nella sua infinita trascendenza.

***

Il paesaggio umano della stazione di Buffalo in un fine-settimana mi è familiare – niente a che vedere con i personaggi poco raccomandabili che ci puoi trovare la sera, o con la gente che ho visto transitare per Detroit senza denti (droga? no – piorrea e mancanza di copertura sanitaria) e con scatole di cartone. Famiglie numerose con borsoni stinti, vecchie avvolte in felpe extra-large, pendolari con la felpa della Osgoode Law School, bambini che si rotolano sul pavimento, fidanzati che si sbaciucchiano promettendosi amore eterno almeno per un’altra settimana: un’umanità pendolare che potresti trovare anche alla stazione delle corriere di Reggio Emilia, o di Ravenna.

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Da Buffalo a Toronto, mi ritrovo seduta accanto a una ragazza sino-americana. Parlando scopro che è anche lei un’accademica, lavora in una cittadina del Massachusetts che io conosco (non bene ma ci sono stata anni fa a pranzo con mia zia), e che come me è in viaggio per una convention – la sua è proprio a downtown Toronto. Dopo la nostra breve conversazione, infatti, si rimette a lavorare al suo intervento. Lo sta scrivendo di sana pianta, parola dopo parola, a volte usando direttamente Google Translate dal cinese. Non dovrei farlo, ma non posso impedirmi di sbirciare tra le righe della sua presentazione. L’inglese è una roba da accapponare la pelle.

Ma non intendo giudicare. Magari quest’accademica magra, stressata e dipendente dal wi-fi della Greyhound è la reincarnazione cinese di Marc Bloch e non ha avuto tempo di prepararsi perché stritolata da montagne di composizioni, paper, assignment più o meno creativi, lettere di raccomandazioni, email, comitati, riunioni, incarichi organizzativi, commedie studentesche, ricevimenti ed esami. Ne ho visti, di accademici affermati che presentano un talk tirato insieme in mezza giornata per pura e semplice mancanza di tempo. Se fatico a ricercare io, che sono in un dottorato, mi figuro cosa debba essere la vita di un adjunct – alias precario: perché, sì, gente, i precari esistono anche in Nordamerica.

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Che esistano, ci è stato detto chiaro e tondo proprio alla convention della NeMLA dove sono appena stata. Il giorno precedente, infatti, mi sono unita a un collega (un giovanissimo e brillante anglista del North Carolina) e ho seguito un panel sul futuro dell’accademia – errore da non ripetere mai più, ci ammoniranno i colleghi più anziani la sera.

Un’esperienza avvilente ma istruttiva. C’erano tutti: il radicale tenured che si dice consapevole della propria fortuna, la precaria che da quarant’anni cerca di sindacalizzare il proprio campus, l’esperta di lingue moderne che ha gioiosamente aderito alla filosofia commerciale (sell it babe!), la storica finita a insegnare in un’American University in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini e, dulcis in fundo, il professore a contratto di e-learning (per diversi atenei, comprese alcune delle università ‘for profit’ più screditate degli USA) che magnifica la propria libertà – ah, poter insegnare via skype da una cittadina sperduta del Minnesota! Correggere i paper in pigiama!

Spiace dirlo, ma più che un panel sembra l’A-Team della sfiga accademica. Perché non si tratta semplicemente di “non fare gli schizzinosi” e trovare modi di sopravvivere a un mondo cambiato. No. Per alcuni relatori, si tratta di abbracciarlo con entusiasmo, questo mondo, illudendoci che sia possibile continuare in eterno a trovare delle nicchie e convincendoci che dopo tutto l’accesso alla cultura, il diritto alla formazione siano cose negoziabili. E tanto peggio per la massa di quelli che vengono stritolati – colpa loro, non hanno saputo adattarsi e sopravvivere, non sono stati “furbi”. Non è un caso che l’unico intervento critico provenga da un Graduate Student di UC Berkeley – un simpaticissimo germanista di origini indiane che rivendica di essere il prodotto di un’istruzione pubblica e pone il problema – politico – di rifiutare la mercificazione della cultura. Eppure sono le parole del suo intervento, ancora fortemente improntate a un’etica dell’agire pubblico, a suonare stonate in questo contesto tutto aperto a mediazioni e ‘trattative’, per non dire supino ad accettare i lati peggiori del ‘nuovo’ che avanza. Non c’è più spazio per l’utopia, è fuori moda come le giacche di tweed e i maglioni con le toppe.

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Diciamola tutta: forse ho una crisi di motivazione. Non nel senso che non mi piaccia il mio lavoro (ma è un lavoro, poi?). No. Lo amo il mio lavoro, non saprei farne un altro, ho lasciato il poco che avevo per fare questo lavoro. Se a 28 anni vivo in un basement, non ho una famiglia mia, non ho un legame e vivo appena sopra la soglia di povertà è perché ho deciso di seguire questo percorso. No – non sono io che attraverso una crisi – è il mio lavoro (ma ripeto: è un lavoro, poi?) che ha perso il suo centro gravitazionale, la sua natura, la sua funzione. La crisi motivazionale non ce l’ho io, ce l’ha l’accademia. Io so che cosa posso e voglio fare – è l’accademia che non sa più che cazzo sta facendo. Ed è per questo nell’economia complessiva del nostro lavoro (once again: è un lavoro???), i mezzi (ciò che ci porta soldi, gli studenti-clienti, la visibilità, le marchette, i talk fatti tanto per fare) domina sui fini (ciò in cui dovremmo investire risorse, gli studenti-discenti, il lavoro invisibile, le prese di posizione, la ricerca che dura anni e scopre cose davvero importanti).

***

Penso spesso, in occasioni come queste, ai chilometri percorsi in questi due anni e mezzo da Graduate Student. Migliaia di chilometri per presentare ricerche e presenziare a eventi che si trasformeranno in una riga di curriculum – sperando sempre che sia quella determinante per trovare un lavoro. Migliaia di chilometri per tenere insieme le mie mezze patrie – questo Canada che ogni giorno mi insegna una lezione di durezza e quell’Italia che non mi manca e a cui non potrei tornare senza sentirmi tarpare le ali, ma dove continuano a risiedere le persone importanti della mia vita, anche se la mia vita è spaccata in due metà che non danno più un intero. Migliaia di chilometri che significano migliaia di dollari messi da parte, rubati alla qualità della vita nel quotidiano, e migliaia di tonnellate di monossidi e di petrolio, di cherosene e di piombo: il mio mestiere non è certo uno a basso impatto ambientale, almeno per come lo intendo io.

Perché io lo faccio, lo vivo, lo penso a lunga percorrenza.

Non le conto più, le notti e i giorni che ho passato a dormire in pose da contorsionista, le ginocchia contro il mento in improbabili posizioni fetali, le traversate epiche di interi continenti, le notti passate a non-dormire su una panchina dell’aeroporto di Buffalo, le volte che ho passato la frontiera via terra a mezzanotte, tra bimbi spaventati e adulti spazientiti. Non le conto più – perché sono la prosecuzione di una vita di notti all’impiedi, di amori a lunga percorrenza, di famiglie sparpagliate come polline, delle 17 ore di pullman (solo andata – altrettante per il ritorno) che mi hanno portato da Bologna ad Avignone, di una vita di abbracci nel buio e voci rotte e “andate piano”, di notti passate sballottati tra sedili e cuccette, di bretelle che segano le spalle, di schiene che restano doloranti per un giorno o due, di neon puntati in faccia e di niente da dichiarare, a parte la luce dell’alba.

Ed è per questo –sospetto – che mi sento a mio agio solo in questi transiti impossibili – mentre quando giro con il mio vestito buono tirato fuori dallo zaino e il fondotinta sulle occhiaie mi sento straniera, io che vengo da una famiglia per cui decostruire vuol dire darci dentro con la ruspa, mica con Derrida.

E mi pare ironico che, nelle mie tante fughe attraverso questa cultura che mi è sempre sembrata sinonimo di emancipazione, io finisca per riprodurre il destino della famiglia da cui provengo. Che il dottorato all’estero (in teoria la massima ‘posizione di privilegio’ oggi contrabbandata ai giovani della mia generazione in Italia) mi abbia portato in questa comunità di emigranti che si ritrovano a mangiare l’antipasto “mari&monti” e a ballare “Calabrisella Mia” esattamente come la famiglia da cui scappo, come quei parenti che non ho mai veramente conosciuto e capito. E non posso fare a meno di sentirmi sospesa – mai davvero a mio agio – fuori posto nel mondo di vetrate e vetrine e posate lucidate e carte di credito ma costretta a restarci, perché come ho già detto, non c’è un altro lavoro che so fare.

Di nuovo, sorseggio in piedi la tazzina amara del viaggio.

Tempo di andare.

Tales from a different St. Patrick (1)

In repubblica delle lettere, road post on marzo 17, 2012 at 11:52 PM

Potrei essere a Toronto, o da qualche parte in Ontario, a celebrare Saint Patrick’s day con il nuovo gruppo di amici con cui ho da poco preso ad allenarmi. Invece sono le 4 di pomeriggio e sono seduta su una panchina di ferro smaltato all’autostazione di Rochester, NY, accanto a uno zaino più grosso di me.

Sono di ritorno da una convention regionale – la NeMLA, NorthEastern Modern Language Association – che raccoglie panel di tutte le lingue moderne – un’enorme confusione di lingue dove ogni area disciplinare sembra seguire i suoi ritmi e le sue regole. Nei miei due anni e mezzi da Graduate Student, il mio atteggiamento verso questo genere di cose è cambiato. Ho perso l’entusiamo del neofita, il senso di avventura e di eccitazione che mi portavo dietro all’inizio. L’aspetto positivo è che queste cose mi vengono naturali (e probabilmente la qualità del lavoro che presento è aumentata), e comincio semplicemente a vederle come parte della mia attività. Però comincio ad avvertire la stanchezza delle migliaia di chilometri percorse per condividere la propria ricerca con la comunità scientifica.

All’andata, invece di scrivere o leggere o correggere la montagna di composizioni che mi sono portata dietro, ho sonnecchiato tutto il tempo, esausta per la levataccia e per la  riunione sindacale della sera prima, finita tardi e male. Il viaggio è sempre nel mio stile, partenza all’alba, interminabili ore di pullman e uno zaino pesantissimo a spaccare la schiena. Unica concessione – ho dormito da sola. Sono stanca di imprese epiche, di brandine aggiunte nella stanza dei colleghi o di ostelli improbabili in periferie ombrose raggiunte in autostop (ricordo ancora la volta che mi persi di notte a Pittsburgh, o la volta che un tassista ubriaco  si offrì di farmi da cicerone nella vita notturna di Buffalo: nevermore). Dato che ho due piccole borse di studio che mi aiutano a coprire le spese (tra cui una Travel Graduate Award della stessa NeMLA, un award piccolo ma non facile da ottenere) ho deciso di stare una notte in meno ma permettermi qualcosa di comodo.

Rochester è uno di quei posti di cui, se per un caso strano non ci sei nato, non conosci nemmeno l’esistenza. Un po’ come Des Moines secondo Bill Bryson. Quattro grattacieli nello stile

ritorno al futuro

classico da primo Novecento, tra cui spicca la torre Kodak – unica attrazione turistica, o presunta tale, del luogo. Le strade sono pulite, la gente cortese e persino l’autostazione (in genere luogo di raro squallore) è dignitosa. Tra pareti imbiancate da poco e pavimenti puliti, campeggiano distributori di caramelle anni Ottanta tirati a lucido, e persino un pezzo di modernariato. Eppure, ogni volta che, in genere per una conferenza, finisco in cittadine semideserte come questa, mi dico sempre: non fare la schizzinosa, potrebbe capitarti qualche posto di lavoro in un community college in un posto così, e col mercato che c’è, sarebbe pure il caso di baciarsi i gomiti.

Resta il fatto che è una cittadina minima, in cui – la “vita” cittadina sembra ridotta a pochi isolati. Si passa senza transizione dalla periferia (tra parcheggi semideserti, edifici crollanti, erbacce e centri cattolici di aiuto alla famiglia) al “centro”, tutto banche e convention centers. Pare impossibile mangiare un boccone, se si escludono soluzioni avventurose come una taverna di pirati nel basement di un palazzo o persino una filiale statunitense di Tim Hortons. Supero un ristorante a forma di pagoda che offre cucina cinese, thai, sushi, hamburger, patatine, insalate, pizza, smoothies e probabilmente qualcos’altro che non ricordo. Mi entusiasmo vedendo l’insegna di una libreria (in fondo Rochester ha un’università e diversi college), finché non attraverso la strada e arrivo abbastanza vicina da leggere per esteso: si tratta di una libreria specializzata in “Adult“, genere di cui — rivendica orgogliosamente — ha financo le “uscite più recenti”. Finisco per pranzare con una fetta di pizza bisunta in un posto gestito da Italians, che però dev’essere particolarmente rinomato da queste parti: la fila arriva sul marciapiede. “This is not Burger King – You don’t get it your way – You get it my way or you don’t get the whole thing”, ammonisce un cartello, manco ai fornelli ci fosse Vissani. Più tardi, alcuni colleghi racconteranno di aver cercato invano negozi di varia natura e persino un caffé “tipo starbucks” (anche un’imitazione andava bene, presumo).

Noi della NeMLA condividiamo lo spazio con la Convention Repubblicana dello Stato di NY. Trasecolo quando, salendo al primo piano, mi imbatto in un banchetto di sostenitori di Santorum. Decido di tenere addosso il cartellino della NeMLA anche all’uscita dall’hotel, almeno per i primi due isolati. Meglio evitare confusioni.

Tutta la giornata di venerdì, fuori dall’albergo, si susseguono manifestazioni di protesta. L’atmosfera non è tesa, ma davanti all’hotel si infittisce lo schieramento di camioncini di televisioni nazionali e locali. Agenti della polizia presidiano la hall. Gli slogan sono scanditi senza posa, mentre dall’altro lato della strada, un gruppo di cheerleader danza, per un evento promozionale, in abiti che ricordano le toghe della laurea.

Chiedo a una ragazza per che cosa esattamente stanno protestando. Mi parla della cultura di odio e della guerra lanciata dai Repubblicani contro i poveri, contro i gay, contro i neri, contro i musulmani, contro il mondo. Dentro, basta percorrere pochi metri e si è in un mondo a parte, totalmente segregato. Giovani accademiche rileggono nervose il loro paper mordicchiandosi le unghie, graduate students imberbi si aggirano goffi in giacche prestategli dal babbo, accademici irreprensibili chattano su facebook, graduate students di Ivy Leagues fanno comunella con adjuncts e junior faculty del Wyoming o dell’Arizona presumendo di avere di fronte carriere ben più brillanti, e non c’è una presa di corrente  nemmeno a pagarla. [segue]

se la lotta di classe comincia in classe

In educazione, lavori pieghevoli, lifestyle, repubblica delle lettere on gennaio 7, 2012 at 10:34 PM

Su indicazione di un amico, leggo il post di Lisa Roscioni apparso su «TQ» prima e su «Alfabeta2» poi, relativo all’annosa questione della crisi delle Humanities (“Humanities: informazione o conoscenza?”). Il pezzo è interessante, ben documentato, profondo, ma dà la stessa sensazione di tutti i pezzi usciti in Italia sul tema: descrivono un sistema diverso dal nostro senza menzionare tale differenza, affrontano una crisi di saperi e discipline senza entrare nel merito delle strutture economiche che la sostanziano.

 In the Basement of the Ivory Tower, l’interessante libro scritto dall’anonimo Professor X e citato nel post di TQ, è, come correttamente afferma Roscioni, una lamentazione sulla preparazione penosa degli studenti americani, e in particolare di quegli studenti che, vedendosi precluso l’accesso a un’educazione superiore di qualità, finiscono in college privati di terz’ordine o in Community College dal forte orientamento tecnico e professionale. Ma è soprattutto la dimostrazione di un mostruoso meccanismo economico, quello che potremmo definire uno Schema di Ponzi interno all’istruzione superiore.

Il sistema universitario descritto da In the Basement of the Ivory Tower è basato su due cardini: l’indebitamento (sotto forma di prestito per accedere all’università) e la precarizzazione di massa dell’insegnamento (sotto forma di moltiplicazione di posizioni a tempo determinato, precarie, i cosiddetti adjuncts). Si tratta di due fenomeni collegati tra di loro. Per lo stesso professor X, docente a contratto di corsi introduttivi alla letteratura e alla composizione di testi, l’insegnamento è un secondo lavoro accettato per far fronte a un altro indebitamento, quello per una casa al di là delle proprie possibilità. Nel libro, del resto, si stabilisce una sistematica equivalenza tra la crisi dei mutui subprime esplosa nel 2008 e l’analoga inflazione di titoli di studio (e di occupazioni che li richiedono, anche in mancanza di una reale necessità) paventata nell’era di Obama. E mentre imperversa la polemica sul fatto che la popolazione americana sia effettivamente sovra-qualificata (come sostiene Professor X) o sotto-qualificata (come sostengono diversi suoi avversari, come il prof Anthony P. Carnevale della Georgetown University), matura una delle possibili crisi speculative dei prossimi anni. Come ha scritto di recente Keli Goff sull’Huffington Post, “l’indebitamento da prestito studentesco ha assicurato che tutti gli altri potessero solo prendere temporaneamente in affitto il Sogno Americano, senza mai davvero comprarlo. Esattamente come le carte di credito, il credito allo studio ha permesso a molti di noi di far finta di tenere il passo con i vicini**, ma quando il conto finalmente arriva, si ristablisce la realtà, e cioè che non hai mai davvero tenuto il passo, ma solamente fatto finta – il che ha spesso esiti disastrosi. Circa mille miliardi di debito più tardi, il conto sta arrivando al tavolo della nostra nazione”.

Lo sbarramento all’istruzione di livello universitario è infatti duplice: a una barriera culturale, costituita dalla mancanza preparazione stigmatizzata dal professor X e sempre più frequente anche in molte blasonate università italiane, se ne affianca una economica, in una misura che qui da noi è ancora sconosciuta (ma già il sistema britannico, dopo l’eliminazione dei tetti massimi alle tasse universitarie, potrebbe presto diventare uno scomodo gemello di quello americano). Non a caso, una delle richieste che il movimento OWS sta avanzando è la remissione dell’indebitamento universitario, proposta come una misura di rilancio all’economia. Si tratta di una questione politica ed economica di importanza capitale. Il debito medio contratto nel 2010 supera, infatti i 25,000$ procapite, con una distribuzione ineguale sia rispetto agli stati (il New Hampshire è il più indebitato, con il 74% di indebitati e un debito medio di 31,000 $, lo Utah il meno indebitato con una media di 15,000$ per il 44% degli studenti), sia rispetto alle istituzioni (con alcune università for profit che si aggiudicano mostruosi record di indebitamento). Per capire l’entità della catastrofe, basta un solo dato: nel giugno del 2010, il debito da prestito universitario (allora calcolato nella cifra di 829.785 miliardi di dollari) superava l’indebitamento complessivo da carta di credito negli Stati Uniti (Fonte: WSJ). Un’anomalia dovuta senz’altro ad alcuni fattori contingenti (per esempio la stretta sul debito da carte di credito, dopo il tracollo finanziario del 2008, e il conseguente aumento dei pagamenti minimi richiesti) e ad abitudini di spesa (dovendo scegliere, lo studente ottempera al pagamento minimo della carta di credito, anziché del debito da prestito universitario), ma che dà la misura di una situazione preoccupante. Sono cifre, queste, che i liberali di casa nostra farebbero bene a tenere a mente, quando parlano di “prestiti d’onore” e dell’intraprendenza dei giovani stranieri: indebitarsi per 50,000 dollari a 18 anni non è intraprendenza, è incoscienza.

Il dibattito sulla crisi delle Humanities e quello, ad esso collegato, sul declino delle Lingue Moderne (cui nel 2010 è stato dedicato addirittura un panel nella convention annuale della prestigiosa MLA) non possono dunque essere colti appieno fuori da questo panorama terrificante: un contesto in cui lo studente , spesso indebitato per i prossimi vent’anni e posto di fronte a un mercato del lavoro nerissimo, deve “ripagare” gli enormi costi sostenuti per la propria educazione. E non possono essere colti appieno neanche al di fuori del paradosso per cui sono proprio i requisiti umanistici (l’obbligo di sostenere almeno un esame di inglese, l’obbligo, laddove c’è, di sostenere un esame di lingua straniera) a tenere in piedi dipartimenti umanistici altrimenti falcidiati dai tagli.

Ed ecco che si arriva al paradosso storico attuale, per cui l’accesso all’istruzione è contemporaneamente ‘venerato’ come un obiettivo di per sé degno e criticato come un’utopia irresponsabile, contemporaneamente dileggiato come una mitologia delle classi medie impoverite e osannato come un biglietto di sola andata per chi fugge dall’inferno delle classi svantaggiate. Contestualmente, lo scorso 19 ottobre, Nicholas Kristof invitava a Occupare le aule dalle colonne del «New York Times», rivendicando l’importanza di programmi pubblici tesi a diminuire le differenze tra i più svantaggiati e i privilegiati sui banchi di scuola. Ma non mancano i fautori della tesi opposta: in L’education suffira-t-elle?, un articolo apparso su «Le monde diplomatique» di questo gennaio 2012, John Marsh sostiene che le differenze sociali siano il più forte indicatore della performance scolastica, a fronte di qualsiasi altro fattore. Aumentare l’accesso all’istruzione – sostiene sempre Marsch – può al limite frenare e contenere le disuguaglianze, non certo ridurle.

Certo, gli anni di Ivan Illich e del suo Deschooling Society sono lontani, e mentre si continua a rivendicare – giustamente – l’accesso all’istruzione come un fattore di emancipazione personale, manca una riflessione sulla natura elitaria e iniqua di questo “mercato” accademico. Un’istruzione concepita come un business dai costi e dai profitti illimitati, infatti, non può in sé abbattere le differenze, ma finirà inevitabilmente per consolidarle – e questo sarebbe vero anche se l’accesso all’accademia garantisse automaticamente un miglioramento sociale a tutti gli individui che vi pervengono. Un paradosso che lo stesso Professor X (anche se da un punto di vista diverso dal nostro, perché sostanzialmente conservatore) non manca di notare, quando, in un articolo apparso nuovamente su «The Atlantic», paragona la corsa al titolo di studi alla folla che si alza in piedi durante un concerto, migliorando sì a propria visuale, ma costringendo tutti ad alzarsi in piedi. Una situazione scomoda per tutti, salvo, ça va sans dire, che per chi vende i biglietti.

[Grazie a Jumpinshark per avermi segnalato un refuso e una traduzione poco chiara]

riflessioni su Yves Citton. “Mythocratie. Storytelling et imaginaire de gauche” [4 novembre 2011]

In a spasso tra i libri, repubblica delle lettere, taking action on novembre 16, 2011 at 5:35 am

51UOSDkhesL._SL500_AA300_Alcuni mesi fa, nel recensire il non-fiction novel HHhH. Il cervello di Heydrich si chiama Himmler (di Laurent Binet), Wu Ming 2 scriveva:

“Ho come l’impressione che in Francia il problema delle ‘tossine narrative’ sia stato posto in maniera sbagliata. Invece di interrogarsi su quali figure retoriche o bias cognitivi portano un narratore a manipolare il suo pubblico e a nascondere la realtà, si è deciso che raccontare storie equivale a spacciare frottole, sempre e comunque, salvo poi rincorrere un’incomprensibile contro-narrazione, come fa Salmon, o inchinarsi di fronte al “potere imponderabile e nefasto” della letteratura, come fa Binet.”

Come a dire che, nella cultura e nel dibattito francese, gli anticorpi sono più forti, ma ciò accade anche perché il “virus” delle narrazioni tossiche è più resistente, come il lavoro di Jonathan Littel (2007) ben dimostra, e questo virus finisce per invalidare in partenza la fiducia nel potere costruttivo, liberatorio delle narrazioni.  Non stupisce, dunque, che proprio dalla temperie francese sia emerso un illuminante contributo teorico sullo spessore politico delle narrazioni, e sul loro ambiguo potenziale. Mi riferisco a Mythocratie. Storytelling et imaginaire de gauche di Yves Citton, uscito nel 2010 e, a quanto mi risulta, non ancora tradotto in italiano [ne consegue che tutte le traduzioni del testo, e gli eventuali sfondoni, sono di mia mano. Ricordo inoltre che non traduco di professione e che il francese è la mia terza lingua…].

Il punto di vista di Citton si discosta da quello di Salmon, White, Jenkins e degli altri autori citati nella discussione. In primis, sono diversi lo sguardo, la prospettiva e gli strumenti impiegati. Citton non è un “tecnico” delle narrazioni (e poco importa che tale etichetta si riferisca a esperti di fandom, di letteratura, di racconto storico, di cultura pop, o a romanzieri di mestiere), ma un filosofo politico con una rigorosa formazione spinoziana. Non deve stupirci, dunque, che egli approdi all’analisi delle narrazioni con uno sguardo attento soprattutto ai problemi di sovranità e di autorità.

1. Narrazione e potere

Secondo Citton, il problema della narrazione è indissolubile dal problema del potere: un potere definito però in termini foucaultiani, più come “ciò che induce a fare”, che come “ciò che impedisce di fare”. Il riferimento è a uno scritto di Foucault del 1982 (“Le sujet et le pouvoir”, ora in Dits et écrits II, 1056), anche se, sempre in tema di narrazioni, torna in mente anche la riflessione formulata da Huxley nel suo Ritorno al mondo nuovo, dove si descrive il passaggio da una persuasione negativa a un’induzione attiva, alla base di un totalitarismo “light”.
250px-Leviathan_grServendosi di categorie che richiamano a tratti il pensiero politico di Spinoza e a tratti le formulazioni di Toni Negri, Citton definisce il potere come un circuito di “desideri” e “affetti”: le narrazioni, e i loro “agganci” (accroches) giocano dunque un ruolo capitale in tale captazione ed espropriazione affettiva delle moltitudini. Riprendendo l’esempio della moneta, alla quale si crede ma che rivela in una crisi la sua assenza di valore (e qui si intravede forse il Marx della Grundrisse), Citton propone la formulazione ambigua ma affascinante di un’ «economia degli affetti» (p. 29), che agisce mediante la mobilitazione affettiva e, in subordine, la captazione dell’attenzione. Il potere si definisce dunque come una “circolazione di affetti e desideri”, cui le istituzioni (a loro volta fondate da un flusso di credenza proveniente dalle moltitudini) danno continuamente forma (p. 49). In una simile economia, diventa centrale il ruolo giocato dalle mediazioni: tra queste, possiamo annoverare gli affetti, che producono determinate “aperture concettuali” del reale (il termine originale è “frayage”, letteralmente varco o passaggio, usato nel lessico della psicoanalisi).
Qui Citton sembra trovarsi in sintonia col pessimismo espresso da Salmon nel suo Stortytelling: il filosofo individua infatti una vera e propria dittatura del pubblico, il cui potere è storicamente determinato da un mix di fattori (democrazia formale, crescente mercificazione di beni, diritti e servizi, centralità della “produzione della domanda”, massificazione dell’istruzione, passaggio dal capitalismo industriale a quello cognitivo, superamento della “disciplina” a favore del “controllo” sociale, e da ultimo la natura sempre più globalizzata e intensa delle reti mediatiche). Il potere del pubblico è però apparente, parte di una circuitazione ben più ampia di valori, affetti e saperi: “le mie scelte sono il luogo di un passaggio obbligato”, è l’efficace sintesi proposta in Mythocratie (p. 35). A questa constatazione, occorre dunque rispondere con una domanda: “Chi racconta la mia storia?”.

A differenza di altri autori attivi su questo terreno, Citton non chiama in causa le condizioni tecnologiche della nuova economia degli affetti. Il suo è chiaramente un modello trans-storico, adattato e calato al tempo presente. Non si nomina quasi mai la rete – se non come forma mentis, o come “forma complessiva” assunta dall’economia degli affetti – e l’autore mescola indifferentemente esempi presi dal mito greco (o meglio dalla tragedia, come le Eumenidi, citate a riprova della natura falsamente “pacificatrice” dei miti), dalla Repubblica delle Lettere illuminista (Diderot) e dalla più stretta contemporaneità (il jazzista Sun Ra, le esperienze comunicative di Luther Blisset e di Wu Ming). Rispetto alle forme della comunicazione contemporanea, la nota più significativa è forse quella in cui Citton denuncia l’onnipresenza mediatica (e quindi la maggior difficoltà, per le storie, di attirare la nostra attenzione) e il conformismo che porta a una continua ricerca di stimoli nuovi, a un’innovazione fine a se stessa (p. 73): atteggiamento che – riprendendo una formula di Eric Macé, Citton ribattezza “conformismo instabile” (e mi viene qui spontaneo pensare per un attimo al personaggio di “Candido l’innovazione”, o a certi presunti “giovani” del nostro triste panorama politico).

2. Che cos’è una “narrazione”?                                   

Come funziona, dunque, una narrazione? Come un produttore di senso. Con una frase che avrebbe benissimo potuto scrivere Adriana Cavarero, Citton spiega che “narrativizzando gli eventi, do loro senso” (p. 73). La narrazione è infatti “una macchina fatta per catturare le nostre convinzioni e i nostri desideri”, ma anche per “rivalutare” determinati valori, o, ancora, per trasformare la società. La trasformazione è, del resto, uno degli elementi chiave per distinguere ciò che è racconto da ciò che non lo è. Citton si serve qui della riflessione proposta da Francesca Polletta in un fortunato studio del 2006 (It was like a fever. U of Chicago Press), e individua le caratteristiche inerentemente politiche della narrazione: trasformazione, presenza di un attore e di più punti di vista, unità del racconto e coerenza causale (non necessariamente coincidente con le leggi causali del mondo extra-narrativo), associazione di un dato “valore” a ogni stato del processo trasformativo (pp. 68-70). Come è facile intuire, valore, molteplicità dei punti di vista e trasformazione, oltre alla categoria del tempo (implicitamente contrapposto alo spazio) sono i principali elementi che permettono l’impiego politico di una storia, o la trasformazione di un paradigma precedentemente assodato.
Ancora una volta, balza agli occhi la natura politica e sociale di tale riflessione: Mythocratie è un libro orientato all’agire, non alla riflessione teorica fine a se stessa. A tal proposito, Citton compie una fondamentale chiarificazione, distinguendo il momento della narrazione vera e propria, e quello che egli definisce “scénarization” (una dicotomia che proporrei di tradurre come “produzione di storie” vs. “produzione di scenari”, o come “narrazione” vs. “sceneggiatura”, evitando in tutti i casi faticosi neologismi) (p. 100). Si tratta, a mio avviso, del contributo teorico più importante dell’intero volume, foriero di utili spunti. Ad esempio, continuando il ragionamento di Citton, potremmo notare come la produzione di scenari sia implicitamente legata alla produzione di paradigmi generali, mentre il racconto è un’attività isolata e orientata a un circuito di destinatari; il racconto è inoltre, un’attività dichiaratamente intersoggettiva, mentre la produzione di scenari si basa sull’occultamento dei propri enunciatori.
Il contributo principale di Citton, a tal riguardo, è soprattutto di natura politica: egli investiga il funzionamento sociale della produzione di scenari e di narrazioni, prendendo in esame la disparità gerarchica nel controllo dell’immaginario (o, potremmo dire con una formulazione di sapore marxiano, il controllo dei “mezzi di produzione” dell’immaginario). Se la narrazione, infatti, ha come domanda fondamentale “come narrare efficacemente?”, la domanda della produzione di scenari riguarda l’influenza esercitata sui destinatari (p. 142). Ancora, la narrazione “capta flussi di desideri e di convinzioni in funzione della virtù propria di chi racconta e del suo racconto”; la produzione di scenari, invece, “capta i flussi di desideri e di convinzioni in funzione dell’accesso – di cui già dispone – all’attenzione di un pubblico” (p. 142). Così, mentre la narrazione è uno strumento eminentemente politico e trasformativo, la produzione di scenari è alla radice dell’attuale egemonia culturale della destra. Esempi di quest’ultima sono l’uso del logo e alcune sindromi politiche, tra cui un posto di rilievo spetta alla “sindrome Berlusconi”, caso in cui i detentori del controllo sull’informazione, “mediante il loro discorso, i loro organi stampa, le loro radio e le loro televisioni, possono senz’altro nutrire le convinzioni che permettono di dirottare su una certa categoria di stranieri le frustrazioni che una certa parte della popolazione italiana prova verso i processi economici, sociali e politici all’origine di una crescente vulnerabilità” (p. 143).
La distinzione tra produzione di storie e di scenari, a mio avviso, è ciò che distingue il modello di Citton da un certo generico ottimismo sulle narrazioni ed è fondamentale per capire come mai le narrazioni di sinistra siano, oggi, pressoché inerti di fronte alla potenza di fuoco degli scenari di destra. Parafrasando un grandissimo pensatore politico, mi sento di suggerire che le narrazioni senza capitali, senza numeri (economici o demografici) e senza eserciti siano come dei profeti disarmati. Una condizione su cui è opportuno – come ha fatto Citton – interrogarsi a fondo.

3. Quale sinistra per il futuro?

Come tutti i libri di questo tipo, Mythocratie si sofferma in dettaglio su un modello analitico o su quello che potremmo definire una pars destruens, ma glissa quando si arriva nei pressi di una possibile pars construens o – più correttamente – di pratiche per invertire la tendenza. Tale pars costruens, sebbene meno sviluppata, non è tuttavia assente dal volume, e si articola in due momenti principali: da un lato, Citton esamina pratiche alternative, come la riflessione proposta dai Wu Ming in New Italian Epic; dall’altro lato, Citton propone una propria lista di priorità per una nuova rappresentazione politica della sinistra.
Preferisco non dilungarmi sulle riflessioni che Citton dedica al New Italian Epic, dato che si tratta di testi e discussioni largamente accessibili a chi vive in Italia; mi limito a sottolineare come del discorso sul NIE Citton metta in rilievo non il presunto trionfalismo delle narrazioni “epiche” ma al contrario la tensione all’ “eccentricità” e alla resistenza, mettendole in relazione ai paradigmi di Jean-Luc Nancy. Su queste basi, il filosofo propone non di compiangere la pretesa impossibilità di racconto per una comunità irrimediabilmente perduta, ma di rilanciare un’epica interrotta per una comunità in fieri (un’epica rapsodica, forse?).
La riflessione sui compiti della sinistra è invece in larga parte inedita da noi, e merita quindi un resoconto più dettagliato. Riprendendo la tradizione del compte philosophique, Citton illustra il paradigma dominante nei nostri tempi, quello della “Crescita regina”, cui aderiscono tutte le forze politiche – compreso l’operaismo vecchio stile e l’attuale social democrazia mutagena, rispettivamente ravvisabili nelle vesti della “Fée Prolétarienne” (Fata Proletaria) e della “Fée Mielleuse” (Fata Sdolcinata). Tra le vane proteste della sinistra radicale e le evoluzioni pubblicitarie della socialdemocrazia, la carrozza sociale continua la sua folle corsa verso la crescita infinita: in tale contesto, il guastafeste (qui ribattezzato Fée Maladroite, “Fata Pasticciona”) che proponesse una brusca sterzata a sinistra avrebbe poche probabilità di essere ascoltato.
In questa narrazione anche un liceale riconoscerebbe un travestimento polemico di Mandeville: ma se nel 2010, e fino a ieri, il ruolo del guastafeste non sembrava corrispondere ad alcuna delle forze politiche in gioco, ora questo spazio di senso è stato riempito dalla marea montante del movimento OWS. Più precisamente quella del guastafeste è una storia che sta guadagnando forza, che cresce come una slavina, proprio ora mentre scrivo queste righe. Più che mai, dunque, è opportuno interrogarsi sullo spazio di responsabilità sociale e politica aperto da questa narrazione; e farlo non solo con uno sguardo “strategico” (come guadagnare attenzione e vincere l’ostilità di un pubblico ancora largamente influenzato dagli ‘scenari’ della destra?), ma anche etico, per gestire al meglio le responsabilità politiche di una narrazione di successo ed evitare di trovarsi, seppur inconsapevolmente, a bordo della stessa carrozza lanciata verso il nulla.

la legge (del) Reale [18 ottobre 2011]

In generazioni, la memoria e l'oblio, malatempora, repubblica delle lettere, taking action on novembre 16, 2011 at 5:27 am

Mi scrive mia madre – il che di per sé è un evento – dicendomi preoccupata che in Italia vogliono rimettere in vigore la Legge Reale. Lo so già. Ho letto la notizia un’ora dopo che era uscita sui giornali, e non mi stupisce, nel clima del mio Paese.

Non ho MAI dico MAI pensato che Di Pietro fosse di sinistra ed questo è il motivo per cui MAI, dico MAI, l’ho votato. Ho fatto cose di cui mi sono pentita, in cabina elettorale, ma MAI dico MAI ho votato Di Pietro, anche quando ci sono stati compagni che si sono lasciati abbindolare dalla sirena dei vari Giulietti Chiesa e delle varie Franche Rame candidati nelle fila di IDV.

Il punto è che a me (classe 1983), la Legge Reale, in barba al suo spettrale nome lacaniano, evoca determinate cose. Per esempio, gente morta sparata (uso il verbo transitivamente in barba alla grammatica) per non essersi fermata a un posto di blocco. Un’infrazione, certo, ma passibile di morte? Invece a molti viene in mente solo il desiderio (quanto, esso stesso borghese o, come si sarebbe detto un tempo, “benpensante”), di tracciare contorni, di dormire sogni tranquilli, senza il rischio che qualcuno venga a tingerli di nero.

È normale che, quando le leggi vigenti (quelle della democrazia) sono screditate, si affermi il desiderio di nuove leggi. Così, quando un cantante viene diffamato da un sito che è una fogna a cielo aperto, si invocano leggi restrittive contro la Rete nonostante esistano già strumenti legali atti allo scopo. Quando vengono commesse delle azioni criminose (per le quali la magistratura e le forze dell’ordine hanno già la possibilità, il diritto e direi il dovere di acquisire prove, filmati, etc, senza lanciare idiote quanto disinformate cacce alle streghe in rete), si invocano leggi speciali. Senza comprendere che la trasformazione dell’ordinamento politico e giudiziario è l’istituzione di una nuova realtà, storica e sociale, da cui non sempre è facile tornare indietro.

Le coltri di fumo nero che avvolgono l’Italia sono molte, oggi. Sono quelle di chi ragiona dal punto di vista dei propri personalismi, di chi ragiona per “bianchi” e neri”, alla comoda di ricerca di un altro su cui scaricare il proprio odio. Misseri, Vasco, il banchiere di merda, lo sbirro di merda, il blackbloc di merda. Va bene tutto.

Sono quelle di chi parla a nastro, essenzialmente, perché a gridare oscenità dietro uno schermo (magari domandando a gran voce di sapere i “nomi e cognomi” dei colpevoli, o presunti tali) ci vuol poco, e ci si sente grandi. Sono quelle di una sinistra che ha perso talmente tanto il senso della propria identità da confondere piani e situazioni storiche, per cui la mafia, gli anni di piombo, tutto stesso case impasto verbale. Legge Reale, DASPO, intercettazioni. Tutto uguale. L’importante è chiedere scusa, possibilmente in diretta.

Ed è questo che porta a dire che il berlusconismo (ma il termine da usare sarebbe un altro, perché non si trova Berlusconi solo in Italia) ha fatto presa nelle menti. In quelli che sfasciano una vetrina pensando alla foto che li inquadrerà, senza sapere di posare secondo un cliché ormai buono per i fotografi di moda (e se fossi una critica letteraria direi, con Lacan, che appagano il desiderio del Grande Altro, ma aver letto Lacan non ha mai salvato nessuno da se stesso). Ha fatto presa in quelli che si sentono (come scriveva qualcun altro meglio di me), più “sfigati” e più “disoccupati” degli altri, chiunque siano, questi altri. Magari perché non sono davvero pronti a mettere in discussione le tante cose inutili che costellano il nostro stile di vita. Ma ha fatto presa anche tra quelli che si classificano aprioristicamente e apoliticamente tra i pacifisti, dimenticando che anche il pacifismo è costruzione, è complessità, è lotta nonviolenta che mette in gioco il corpo.

Essere davvero pacifisti è cosa che richiede un coraggio infinito. Voglio essere onesta ed ammettere che non so se trovo in me un grammo di questo coraggio. Non lo si trova da soli, il coraggio di durare, di essere “responsabili” di un metro quadrato. E non ha niente a che vedere con il fatto (sempre discendente dalla stessa logica legalitaria e tardo-illuministica) di esporre il proprio nome e cognome. A volte è politico negare il cognome, per esempio coprendolo con una X. Il corpo conta molto più del nome.

Il punto è che non basta sostituire Paolo Bonolis con Beppe Grillo, Rete 4 con Facebook, Ambra Angiolini con V for Vendetta (e nemmeno Microsoft con Mac, se è per questo) per cessare di essere spettatori e consumatori. Invece c’è un’intera generazione che si sta formando alla politica solo su Facebook (ed equivalenti). Forse è anche per questo che, di fronte alla Legge Reale, e alla delirante proposta di un partito che oltretutto sarebbe l’opposizione, non tutti saltano sulla sedia. E anzi, alcuni continuano imperterriti a cliccare “like”.

gli anni zero finiscono oggi [6 luglio 2011]

In malatempora, repubblica delle lettere on novembre 16, 2011 at 5:15 am

Avevo pensato di intitolare questo post «Il ventottesimo anno», con una di quelle formule trite e ritrite che fanno il verso a un celebre titolo di Ingeborg Bachmann e, in Italia, a un meno celebre libro di Marco Mancassola. Ma non voglio aggiungere alla banalità di un post autobiografico quella della letteratura.

Oggi, sei luglio duemilaundici, compio ventotto anni. Esattamente dieci anni fa diventavo maggiorenne. Trascorsi la giornata dell’epico passaggio, che al tempo non mi parve poi così epico, al Centro Sociale di via Ranzani, in un’interminabile assemblea dello spezzone di movimento di cui facevo parte, in preparazione di Genova. Siccome ero allenata a scrivere e a prendere appunti, mi chiesero se potevo scrivere io il verbale per il giorno dopo, e quelli furono i miei festeggiamenti serali. Dieci anni dopo, mi trovo a raccogliere i cocci di una militanza interrotta – un’esperienza personalmente fallimentare, ma collettivamente ancora viva e meritoria – e di un’esistenza che più campata in aria non si può. Dieci anni dopo, guardando i filmati delle torture in Val Di Susa e la gestione – essa sì, terroristica – dell’informazione mainstream, mi ritrovo a pensare che quei sacrifici abbiano davvero cambiato poco, e che ne servano molti altri ancora.

Oggi per me si chiudono gli anni Zero, un decennio che per me iniziò a Genova nel clamore degli «scontri» e della ricerca di un mondo «migliore» (qualsiasi cosa ciò voglia dire: oggi direi senza esitazione che un mondo migliore è un mondo in cui tutti hanno diritto all’acqua potabile, un mondo in cui i diritti delle persone vengono prima di quelli delle merci), e che concludo degnamente da «cervello in fuga». A un’utopia collettiva si è sostituita una necessità di fuga individuale, all’internazionalismo un po’ caciarone di quei cortei si è sostituito il cosmopolitismo di carriere (e vite) nomadiche e spezzettate. Troppo colte e qualificate per essere definite migranti, troppo stressate e precarie per passare da “privilegiati” appartenenti alla “casta”, molte delle persone con cui ho condiviso percorsi di politica, di lavoro, di partecipazione e produzione culturale sono oggi all’estero, come si dice sbrigativamente per indicare una miriade di percorsi che vanno dal servire cappuccini in un albergo di Londra al brevettare una nuova nano-tecnologia in un centro di ricerca texano, da un erasmus festaiolo in qualche città europea al documentare lo strazio del popolo di Haiti. Ma, sempre talking of my generation, pochissimi di quelli che protestavano hanno tradito gli ideali comuni, ai quali siamo invece rimasti fedeli, magari non nell’impegno politico ma nel volontariato, nell’azione sociale, negli stili di vita responsabili o anche solo in una certa dimensione etica apportata al proprio lavoro. Almeno per ora, è così. Ne riparleremo tra dieci anni, s’intende.

Ho ventotto anni e, secondo la mia carta di identità, sono ancora “studentessa”. Anche perchè a suo tempo, con una borsa di PhD già in tasca, non ebbi la faccia di qualificarmi come “ricercatrice” davanti all’impiegato dell’Ufficio Anagrafe. Non per mia scelta o colpa, ho i contributi di un parasubordinato e lo stile di vita di una fuorisede. Alla biglietteria del cinema mi sento spesso chiedere se per caso ho il tesserino universitario o qualche altra card per i “giovani”, che mi garantirebbe sconti cui non ho più diritto. A volte, lo ammetto, fingo di avere ancora gli anni che il mio corpo manifesta: in fondo, per quanto mi faccia il mazzo, non guadagno ancora abbastanza da pagarmi il cine per intero.

Non mi riconosco nella retorica dei precari, eppure non saprei come altro definirmi. Precaria nella geografia (oggi in Canada, fra 3 anni boh), precaria nel lavoro (un PhD non garantisce nulla e, ore di lavoro a parte, tecnicamente non è un impiego), precaria negli affetti (la stabilità è un lusso fuori dalla mia portata), precaria nello status legale (ho un visto da studente, che mi garantisce alcune  cose ma non me ne permette altre), precaria nelle finanze – certe settimane farei meno fatica se al supermercato mi chiedessero di improvvisare un numero di giocoleria coi limoni, invece che di far stare un po’ di vitamine nel mio budget.

Eppure, in un modo o nell’altro sono diventata una persona “adulta”, e come me molti miei coetanei, che tra mille angosce riescono a fare cose dotate di un valore, che stringono le cinghie e si spalmano tra cento impieghi, contraddicendo ogni giorno la propaganda che parla di “fannulloni” o di “bamboccioni”, e soprattutto rifiutando quel senso di disperazione e autocommiserazione che porta a credere alla mancanza di alternative, all’inevitabilità dei compromessi, all’impossibilità delle utopie. Per questo, tirando le somme di questi dieci anni così ricchi di esperienza, di lavoro, di formazione, di cose apprese e insegnate, di relazioni intrecciate e di saperi scambiati, la gioia più grande che provo è sapere di aver avuto una lunga giovinezza. Lunga, ricca e attiva.

Gli anni Zero finiscono oggi, e nel soffermarmi su questa data (2001-2011), per la prima volta sento che in quest’espressione, così popolare e inflazionata tra noi letterati, c’è una dimensione duplice, ambigua e contraddittoria. Perchè lo zero può essere sì sentito come un “quantificatore”, una stima morale e intellettuale degli anni appena trascorsi, ma anche come un indice di messianismo: il tempo di un’attesa, il tempo della tragedia e della storia che sembrano – in bene o male – essersi riattivato. Un intero decennio di Anni Zero, una decade di “ore x” è trascorso nell’attesa di un evento futuro, talora perdendo di vista quanto stavamo realizzando con le nostre mani e con le nostre idee.

Per questo a me sembra di poter dire che, nella mia vita, gli anni zero finiscono oggi. È tempo che il futuro abbia inizio.

proverbi e cliché all’ombra del nespolo

In a spasso tra i libri, attitudine popular, cinema, recensioni di recensioni, repubblica delle lettere on novembre 16, 2011 at 4:10 am

Se mai fossi costretta a dedicare tutta la mia attività di ricerca a uno e un solo argomento, una delle scelte più probabili sarebbe lo studio delle trasposizioni. E questo per un semplice fatto: ogni trasposizione, anche la più sciatta e malriuscita, rivela moltissimo non solo delle opere trasposte, ma soprattutto della sensibilità dei nuovi destinatari. Questo è vero specialmente delle trasposizioni sciatte e malriuscite, alle quali difficilmente chiederemmo di illuminarci nell’interpretazione di un romanzo, ma che molto dicono dei costumi (e dei malcostumi) letterari di un’epoca.

È questo il caso de I Malavoglia (in inglese The house by the medlar tree), la rivisitazione verghiana di Pasquale Scimeca che è stata di recente presentata al TIFF qui a Toronto, con tanto di bollino a dichiararne l’“interesse nazionale”. Quella di Scimeca è una trasposizione su tre livelli: è un passaggio di medium, innanzitutto (dalla pagina allo schermo), ma anche di tempo, poiché la vicenda è ri-ambientata ai nostri giorni, e di spazio, dato che all’originaria Aci Trezza nel catanese, il regista ha voluto sostituire Portopalo, comune scelto per la sua posizione di estremo meridionale dell’Europa. Simboli e metafore geografiche si sprecano difatti, in questa narrazione che vuol toccare molti temi caldi contemporaneamente, dal disagio giovanile alla difficile realtà delle migrazioni. Dal numero delle questioni affrontate, verrebbe spontaneo pensare all’attualizzazione come a un metodo per rendere esplicite le conflittualità latenti nella storia della cultura (Pasolini mi pare dicesse qualcosa di simile a proposito del suo progettato San Paolo): ma di conflitti in ultima analisi non resta traccia, e all’ombra del nespolo restano solo messaggi consolatori.

Un’attualizzazione tanto radicale pone svariati problemi, a cominciare da quello della credibilità, questione ineludibile in un’opera che si vorrebbe realista. I Malavoglia del 2000, tanto per dirne una, sono forse gli unici pescatori in tutto il Mediterraneo a non servirsi di una radio (in compenso se la cavano benissimo con mixer e computer), e alle previsioni del tempo continuano a preferire l’antica sapienza meteorologica dei vecchi. Ma questi sono peccati veniali, che potrebbero risultare marginali o persino invisibili, in un altro contesto: un grande come Hitchcock era famoso per le sue imperfezioni, che rendono ancora più straordinaria la sua maestria narrativa. Non è questo, però, il caso.

Se le antiche tecniche di pesca non rivivono bene nella Sicilia d’oggi, il resto delle equivalenze calza fin troppo. Così, mentre alla cassetta dei lupini si sostituisce merce di dubbia provenienza da portare sulle coste del Marocco, il giovane operoso Alfio Mosca diventa il marocchino Alef, clandestino che lavora nelle serre di Pachino, l’osteria di Santuzza dove ‘Ntoni si alcoolizza diventa il “Bar Uzzy”, e al brigadiere cui spetta il compito di “sedurre” Lia si sostituisce un mafioso (e non aggiungo altro, per non rovinare uno dei pochi guizzi di un’opera che, del resto, è invece stancamente prevedibile).

Nei 15 minuti di dibattito al termine della proiezione, apprendiamo che la fase della sceneggiatura è stata interrotta durante la lavorazione, e che il film è stato realizzato per successive improvvisazioni degli attori, tutti non-protagonisti, scelti tra gli abitanti di Portopalo. Questa tecnica ha un nome, docu-fiction; è una tecnica che affiora ogni volta che il cinema vuole documentare la realtà, anche attraverso la mediazione di trame e sceneggiature provenienti dalla letteratura; questo specifico esito, tuttavia, èeminentemente televisivo. Più che alle docu-fiction degli anni 70 (penso alle prove magistrali di un Grifi) pare di assistere ai recenti adattamenti di capolavori letterari per la televisione, in primis quella soap ispirata ai Promessi Sposi (2005, per la firma di Simona Ercolani e Fabrizio Rondolino), dove Renzo, ribattezzato Walter, faceva il tassista e Lucia era la figlia di una portinaia. Rondolino la definì nientemeno che “la prima fiction neorealista” («Senza voler fare paragoni, ma solo per capirci, Rossellini scriveva la storia, non i dialoghi, poi dava indicazioni agli attori e se ne andava. Non c’ era un copione», rispondeva lo sventurato al Corriere della Sera, in data 3 giugno 2005).

Il film di Scimeca ha pretese ben diverse, ed è intessuto di citazioni al grande cinema e a una cultura elevata: non manca l’omaggio, del resto ovvio, a Luchino Visconti; nella presentazione si cita Gramsci (“il pessimismo dell’intelletto, l’ottimismo della volontà”); in certe scelte lo spettatore potrebbe riconosce anche una strizzata d’occhio a De Seta, il primo De Seta di Vinni lu tempu de li pisci spata, di Contadini del mare, di Pescherecci (tutti e tre del 1955) e, per restare in tema di migrazioni, l’ultimo De Seta di Lettere dal Sahara (2008). In teoria c’è tutto; solo che l’esito è opposto a quello dei maestri, del tutto coerentemente con la mutazione del “neorealismo” in “docu-fiction”, e del tramutarsi di una grande aspirazione a una cultura di “popolo” nel più piatto e banale nazional-popolare televisivo.

Tutto tradisce questa banalizzazione. La lingua, ad esempio, che dal barocco artificio di un dialetto ricreato ad arte – tale era quello de La terra trema, secondo il parere di dialettologi un po’ più autorevoli di me (Fabio Rossi, Dialetto e cinema, ne I dialetti italiani. Storia struttura uso, a cura di Manlio Cortelazzo, Carla Marcato, Nicola De Blasi e Gianrenzo P. Clivio, Torino 2002, pp. 1035-47) – scade in un banale parlato quotidiano. Oppure l’uso dei proverbi, snocciolato nell’enumerazione piatta e banale di un rap. Il casting, persino: almeno tra gli attori giovani, prevalgono i volti familiari, semplici, privi di qualsiasi asimmetria e in qualche modo telegenici: quanto di più lontano dai volti cinematografici cui ci aveva abituato il neorealismo. A dimostrazione di quanto certi critici duri d’orecchi non voglion capire: e cioè che la natura del grande realismo (penso a certi campi lunghi ejzensteniani di Blasetti) sta nell’artificio, nel farsi metafora della “prosa del mondo”; e che, viceversa, più si alimenta l’illusione di poter toccare e raggiungere la “realtà” nel suo darsi immediato, più si è preda di mille artifici non voluti, di mille cliché tanto introiettati da apparire “spontanei”.

Ora, qui non si sta criticando Scimeca perché non fa i film neo-realisti; siamo nel 2010, ci mancherebbe solo mettersi a rifare il neorealismo. Il problema è che questo film, che si vorrebbe in dialogo con quella ricca tradizione, sembra averne preso le caratteristiche deteriori, come la superficialità e la demagogia, perfettamente riadattate alla presa diretta dell’oggi. Così, per dichiarare l’etica del “raccontare i vinti”, non si trova di meglio che spiattellarla, pari pari, davanti a una telecamera; così il film si confonde continuamente con i suoi contenuti e scopi edificanti – da una dichiarazione di principio sulla realtà delle giovani generazioni in Sicilia, fino all’idea, insita nell’attualizzazione, di voler riavvicinare i giovani a un capolavoro del passato. Che dire; buone intenzioni, ideali condivisibili; ma per fare un’opera d’arte l’ottimismo della volontà non basta. Perché, su questa strada, le idee si riducono a cliché o si risolvono in trovate, e i simboli diventano palesi e meccanici: il rombo della tempesta per l’angoscia, il rullo dei tamburi per il destino, la tela del ragno per la “perdizione” di Lia…

Perché quello che rende insopportabile questo film, in ultima analisi, è proprio la sua mancanza di allusività. Basta pensare a quel capolavoro che era, ne La terra trema, la scena della seduzione di Lia, appena intuita nel buio grazie al combinarsi di un passo, di un movimento, di un’aria d’opera fischiata (scelta che, a sua volta, era un omaggio verdiano, cioè l’inchino di un grande narratore colto e popolare a un altro narratore colto e popolare: un omaggio carico di significati per chi pensa che sia possibile narrare in modo semplice, non-intellettualistico, senza perciò scadere nella banalità più trita). In questi Malavoglia, invece, nessuna allusione: allo spettatore non si chiede alcuno sforzo. Ntoni, appostato contro il muro e mezzo ubriaco, vede il suv di Michele entrare nel vicolo, vede (e sente) i due clic dell’antifurto, vede Michele e Lia scendere dall’automobile per entrare nella casa. Una scena così potrebbe averla girata Muccino (e infatti ne ha girate di simili). Nessun mistero, nessuna innaturalezza, nessun artificio di realismo: solo la realtà, nella sua banale ed esplicita tautologia. Una realtà dal finale riscritto, ovviamente: ché il pessimismo verghiano non va d’accordo con l’ottimismo dei tempi. E nemmeno con quello della volontà.

fortuna che esistono le biblioteche [27 luglio 2010]

In a spasso tra i libri, repubblica delle lettere on novembre 16, 2011 at 3:49 am

Mi sono bastati tre giorni (vabbé, facciamo quattro) per reinserirmi nella temperie culturale di questa Italia, afferrando i sofismi del suo dibattito culturale, i riboboli della sua scena letteraria, la misura della sua vivacità intellettuale. Sabato notte, ad esempio, ho letto il “quasi Strega” Acciaio, della “giovane” Silvia Avallone. Il titolo, che rievoca reminiscenze sia pirandelliane che ejzensteiniane per poi auto-distruggersi nel confronto, preannuncia subito la materia di cui son fatti i sogni della Avallone: l’alienazione. Non, quella che nasce dalla fabbrica ma quella generata da qualsiasi scrittura veramente commerciale e “a scadenza”. Domenica, invece, mi sono dedicata al pamphlet con cui Alessandro Dal Lago demolisce un certo non-fiction novel uscito nel 2006 (su questo, link immaginario al prossimo post, ancora da pubblicare benché in fase avanzata di stesura su cartaceo). L’Italia ha o non ha bisogno di eroi? Sullo sfondo, un vociare degno di Juve-Inter (Viva Saviano, abbasso Saviano), e l’eco lamentoso di una sinistra sempre più nostalgica: O tempora o mores!

E per fortuna che esistono le biblioteche, per chi come me è perennemente in bolletta e specula persino sulla marca del tonno sottolio, figuriamoci comprare un libro a 18,00 solo perché ‘accende gli animi’; anche se, ad acchiappare in biblioteca libri così popolari, tra un rientro e una prenotazione, sembra quasi di star appostati aspettando che passi una lepre. Ma io ho i miei informatori, e grazie al dio degli aspiranti intellettuali scalcagnati, la sfango sempre.

Tanto mi consolano le biblioteche della mia città – comprese quelle universitarie, ormai deserte perché gli studenti, beati loro, sono “in ferie” – quanto mi deprimono le librerie. Ieri, ad esempio, ho percorso svariati chilometri entro il perimetro del centro cittadino solo per cercare un’edizione accettabile delle poesie di Carlo Porta. Un’edizione decente, diciamo; anzi, morettianamente, anche solo un’edizione. Invece niente: dappertutto, buchi scoperti rimuovendo impettite edizioni dei Canti Pisani di Pound – ah, l’egemonia culturale della sinistra! – e le azzurrine Opere complete dell’omonimo poeta d’avanguardia. (A questo punto, un Dal Lago probabilmente obietterebbe che un libro non può essere “impettito”, ma noi siamo i giovani, yè yè, e leggiamo i fumetti. Anche perché i poeti come Carlo Porta non vanno più di moda).

L’avvicendarsi delle fortune letterarie mi strappa un accorato sospiro. Il Porta Carlo obliato e oscurato dal Porta Antonio, e poco importa che il nome d’arte sia stato scelto proprio come omaggio all’illustre milanese. La cultura e la poesia delle avanguardie, del resto, è ormai oggetto di insegnamento accademico nel peggior senso del termine, anziché portare il suo graffio – le poesie di Cara graffiavano, eccome! – nelle aule e nei luoghi del potere. Del resto c’è stato chi, con mortale serietà, ha invocato i funerali di Stato per il funambolo per eccellenza, E.S.: tipico esempio di carnevalesco involontario.

Nel frattempo, continuo a scarpinare. Librerie usate: nisba. Librerie patinate: nada. L’unica libreria che non mi delude è la principale Feltrinelli cittadina, manco a dirlo. All’ombra delle Due Torri, tra una plaquette di qualche giovane poeta e un’antologia di poesie scelte “a tema” (per non dire altro), mi imbatto in una non meglio precisata raccolta pubblicata da Baldini Castoldi Dalai. Sfogliando l’edizione non poi così economica, mi avvedo che, tra un apparato critico inesistente e una pessima stampa, mancano una carriolata di poesie, e che dell’Inferno ci son solo il canto I e VII. The Best of Carlo Porta, praticamente. Ringrazio dell’offerta, e vado avanti. In un’altra libreria (la rivale Coop) trovo una ricca e accurata versione dei Poemetti (Marsilio), cose tipo la Ninetta del Verzée eccetera, che non sono quel ch’ io vo cercando, ma è meglio di niente. Ringrazio dell’offerta, e vado avanti.

Una visita nella Biblioteca Comunale mi permette di comprendere lo stato tragico delle cose. Chi volesse un’edizione completa dei versi di Porta, comprese le traduzioni in milanese dell’Inferno che son proprio quel ch’io vo cercando, non ha speranza, dovendo affidarsi o a una costosissima edizione dei Meridiani Mondadori (55 euro sono tanti anche per una bibliomane come me) o a uno di quei preziosi e inarrivabili volumi UTET con cui, ormai, trafficano solo le librerie antiquarie.

Speravo in una qualche edizione “classici economici”, come le stampano Rizzoli, Mondadori, Einaudi, Garzanti: come ce ne sono per altri fondamentali classici della nostra letteratura compresi autori poco letti come Pulci e Burchiello – e Porta, autore dialettale, è un classico della nostra letteratura. Invece nulla. Milan l’è semper Milan, e in nome della sua grettezza affaristica, tanto proverbiale quanto stereotipica, la capitale dell’editoria italiana condanna all’oblio uno dei suoi più illustri intellettuali. Fortuna che esistono le biblioteche, mi dico: e mentre esco dalla Biblioteca Comunale con un bel Meridiano di Carlo Porta sottobraccio, per la prima volta mi sento finalmente legittimata a pensarlo anch’io, un bell’O tempora, o mores…. Vedi mamma, che sto diventando pure io un’intellettuale italiana?