Nel 1969, molto prima che botox e liposuzione diventassero entrassero nella quotidianità del nostro vissuto, Goffredo Parise vi dedicò un racconto, la variazione numero 22 del suo Crematorio di Vienna. Il racconto è scritto il prima persona, e la voce narrante è quella di una giovane di ventitré anni, commessa in un grande magazzino. Come accade spesso nella prosa dello scrittore vicentino, l’incedere è dapprima lento e piano, e la follia è lasciata trapelare da pochi indizi.
Non c’è dubbio che qui la chirurgia estetica, una delle tante mode importate da quell’America che Parise vide e raccontò di persona, sia un altro dei simboli ricorrenti per dire la società alienata degli anni Sessanta e la sua ‘malattia del denaro’: “Posso dire di essermi fatta la mia vita, ho cominciato molto presto a conoscere il valore del denaro e infatti, proprio per ragioni di denaro e ne sono andata da casa appena compiuti ventun anni”, esordisce infatti la protagonista (p. 126, nell’edizione dei Meridiani). L’ossessione per il proprio volto viene a situarsi, dunque, accanto ai molti altri simboli del valore linguistico, o di feticcio, assunto dal denaro. Nella raccolta, la chirurgia appare quindi accanto ai manichini cui stessa protagonista di questo racconto vorrebbe assomigliare, accanto alle case perfettamente ammobiliate, accanto alle famiglie stile Mariarosa Bertolini di cui Parise svela l’orrore latente, accanto al luogo di lavoro con la sua trasparente alienazione, e, da ultimo, accanto alla prostituzione, una delle immagini sempre più ricorrenti del periodo, elevata da prime e seconde avanguardie a icona stessa dell’artista massificato oltre che della merce.
Tuttavia, lo svolgimento è cosa ben diversa da un semplice racconto à thèse, o da un’allegoria a chiave. Per quanto simbolica e rarefatta, la donna rappresentata ha un preciso grado di realtà, e altrettanto reale è la sua dissoluzione, che passa per tutti i luoghi chiave del “femminino”. La difficoltà nelle relazioni, innanzitutto, con quel “fidanzato” che le rimprovera di esser “diversa da tutte le altre”, e poi la nevrosi (“undici mesi durante i quali sono vissuta praticamente di acqua e tranquillanti”, p. 127); quindi la Posta del Cuore da giornale femminile, cui la ragazza si rivolge per sedare il sentimento di angoscia che nasce dalla propria singolarità (“Diversa da tutte le altre vuol dire unica. Dunque si compiaccia, cara signorina, invece di crucciarsi. Vuol dire che per il suo fidanzato, che l’ha scelta proprio tra tutte le altre, lei è unica. Le pare niente?”, è la laconica risposta, p. 127). Segue l’ossessione per il proprio volto, il compulsivo guardarsi allo specchio, e la volontà di assomigliare fino in fondo a un manichino:
Poi ho cominciato a osservare i manichini da esposizione che tocca proprio a me di vestire, e anche quelli erano diventati un’ossessione. Mi ripetevo: “Lui ha ragione: io mi vesto con gli stessi vestiti di queste qua, ho la stessa gonna, la stessa camicetta, le scarpe che hanno migliaia e migliaia di ragazze, in tutto simili a manichini e come questi graziose, e invece io sono diversa. Questo essere diversa non va bene, è una cosa che può dare fastidio, me lo dice l’istinto […]” (127).
Il racconto di Parise finisce dunque per avere un doppio fuoco. Ancor più che l’angoscia della donna, incapace di dar valore alla propria irriducibile “differenza”, lo scrittore coglie infatti l’indifferenza della persona riprodotta, quasi ridotta a serigrafia o a icona. Così le donne fotografate e famose hanno tutte lo stesso volto: “Le ho guardate tutte, saranno state una cinquantina di fotografie a colori, volti di donna di faccia e di profilo. Via via che sfogliavo mi sono resa conto che quei volti, apparentemente diversi, erano in realtà tutti uguali: le brune come le bionde, le rosse come le castane. Cioè quei volti, pure mostrando linee e armonie diverse, alla fine si confondevano in una sola espressione.” (p. 129). Un femminile artificiale, così diverso dalla singolarità unica del proprio volto:
Insomma una faccia con un’espressione personale, certo diversa da altre espressioni di altre facce. Ma se quella faccia aveva fatto sì che lui e che altre persone mi dicessero quella parola, diversa, voleva dire che era proprio da quella faccia e da quell’espressione che loro mi giudicavano diversa. Se avessi avuto un’altra faccia, mettiamo una faccia come se ne vedono tante nelle riviste di moda o nelle pubblicità, o, appunto, nei manichini che arrivano dall’America, nessuno più avrebbe trovato da ridire e io sarei stata uguale alle altre. (p. 128)
Ragionamento quasi filosofico, che il finale porta alle estreme conseguenze:
Proprio ieri sera un giovanotto, un ingegnere di una grande ditta che da qualche tempo mi fa la corte, mi ha detto guardandomi fisso:
«Sa che mi sembra d’averla già conosciuta? Volevo dirglielo tante volte e tante volte mi sono chiesto dove.»
«Ah sì? E dove, dove? Cerchi di ricordare.»
«Ci ho pensato e solo ora mi è venuto in mente. Guardi di là» e ha indicato con un dito un calendario dietro il banco del bar, dove stavamo bevendo un aperitivo.
Era vero. Ero uguale a quella ragazza del mese di dicembre, persino il cappuccio del paltò, col bordo di pelliccia bianca, era uguale al mio che avevo in quel momento. Ho riso, tutta contenta e mi è parso anche d’arrossire.
«Ma sono io» ho detto, così in fretta cxhe non mi sono nemmeno accorta di mentire. Ma mentivo? Pensandoci mi sono deta che non mentivo affatto: quelli erano i miei capelli, il mio naso, i miei occhi, la mia bocca e persino il mio cappuccio del paltò. Dunque che differenza c’era tra me e quella ragazza? Nessuna. (p. 131).
Invece di trovare la ‘propria identità’ (ammesso che l’identità sia poi unica, e monolitica), la donna del racconto perde se stessa, diventando un’icona che chiunque può impersonare. Una, nessuna e centomila, finalmente.
Stupisce una tale sensibilità, anche considerando che si tratta di una parabola sul mondo moderno, rispetto alla mancanza di problematicità mostrata dalla narrativa più all’avanguardia di questo periodo. Lo stesso Parise, nel più sperimentale dei suoi romanzi, Il padrone (spesso definito un apologo kafkiano, ma non di quel kafkismo’ allegorizzante e facile molto in voga negli anni ’60), presentava ad esempio una figura simile a questa giovane commessa: la segretaria Selene, che esiste solo in quanto corpo. Selene offre la propria nudità senza esserne richiesta, il suo essere oggetto esprime l’alienazione della grande macchina produttiva nel più semplice e ovvio dei modi. Analogamente, nella menzogna de Il serpente – il primo romanzo di Luigi Malerba – il protagonista non trova di meglio che immaginare la conquista e la silenziosa resa di una donna: la quale è naturalmente immaginata nella sua più piena, totale e immediata disponibilità (e poco importa che il romanzo sia costruito come un castello di menzogne, a spirale: l’immagine si imprime, comunque, nella mente). Un po’ meglio va, forse, con il Capriccio Italiano di Sanguineti, forse il letterato che, tanto in poesia quanto in prosa, ha più contribuito a ‘disinnescare’ l’inconscio ideologico del linguaggio: ma anche in esso l’ottica rimane maschile, il soggetto che si libera è quello maschile, e la libido non problematizza mai pienamente l’oggetto femminile, di cui ha bisogno per potersi liberare appieno.
Questa natura ‘maschile’ delle avanguardie italiane – le prime che, in bene o in male, hanno preso a martellate l’ideologia linguistica allora vigente –, questa loro impermeabilità all’altra metà del cielo, e anche alle successive articolazioni teoriche del pensiero italiano della differenza, continua ad essere operativa in tanti paradigmi critici nostrani. Anche una studiosa come Lucia Re, attenta a sottolineare le eredità teoriche e gli spazi aperti al movimento femminista dalla critica linguistica delle avanguardie, non può fare a meno di chiedersi, in un suo saggio recente: “Dati questi e altri elementi di grande interesse e rilevanza per le donne, perché dunque la neo-avanguardia italiana, almeno nella sua dimensione più pubblica e istituzionale, come le conferenze, le antologie, le mostre o i cataloghi, è rimasta in gran parte un fenomeno maschile”? (p. 198, traduzione approssimativa mia)
Una domanda cui converrebbe provare a rispondere, e che genera altre domande, oggi non meno rilevanti. Come chiedersi perché la filosofia della differenza non abbia poi riportato, in seno alle ‘avanguardie’ (o a quel che ne restava) il proprio patrimonio di scoperte e di critiche. O perché la teoria femminista italiana, pur all’avanguardia in Italia, sia rimasta patrimonio di poche, e abbia oggi un’influenza così ridotta sulla politica, oltre che sulle nuove generazioni. O perché in Francia e negli USA alcune delle figure più importanti della critica siano e siano state donne, (alcune si leggono e si traducono anche in Italia, Butler, bell hooks, Braidotti, Cixous, Kristeva…) mentre in Italia le donne sono confinate all’informazione ma raramente approdano alla teoria (con poche, validissime eccezioni di cui sono ovviamente consapevole). O perché i percorsi di ri-soggettivazione maschile e femminile siano rimasti tra loro scollati, al limite dell’incomunicabilità, con esiti perversi di cui paghiamo ancor oggi le conseguenze. E perché sia rimasto nella cultura italiana, un pericoloso scollamento tra soggetto e oggetto, di modo che spesso la ‘liberazione’ dei soggetti coincide con la ‘brutalizzazione’ degli oggetti; una variante commerciale e banalizzata della liberazione sessuale. Domande sulla pervasività della pornografia, e su quanto sia difficile comunicare a un uomo la violenza dello sguardo pornografico (e sì che le teorie a riguardo, anche scritte da uomini, non mancano). E sul perché i critici e gli intellettuali di mestiere, tanto liberati e illuministi, continuino ad avere posizioni di ripulsa verso le istanze femminili, tacciate di volta in volta di moralismo, di incomprensione dei media, e chissà, forse nel chiuso degli spogliatoi, persino di frigidità. (Sembra di sentire le parole di una delle donne intervistate da Luisa Passerini nel suo Autoritratto di gruppo, che lamentava l’obbligo “morale” di “darla via” per non essere tacciate di moralismo borghese o peggio). E perché tale incomprensione sembri, talvolta, un complemento ineludibile di quegli stessi liberalismi e illuminismi. Dieci domande, non meno utili di quelle a suo tempo rivolte al Presidente del Consiglio, per capire come l’ideologia si sia fatta corpo, e il corpo verbo, in una nuova mostruosa versione politica – e sessuata – della Trinità al potere. [segue]