Questa non è una recensione, anche se ci somiglia molto. Non lo è, per due motivi. Primo, perché sono in ferie, se così si può dire, ferie di una scribacchina quasi professionista, pagata anche nei mesi estivi per continuare a “fare ricerca”. Secondo, perché non ho voglia di essere obiettiva o sistematica, né di servirmi di termini come ‘trama’, ‘ambientazione’, ‘complessità’ o ‘struttura narrativa’, cosa che dovrei fare se stessi recensendo ufficialmente Giovani, nazisti e disoccupati (Castelvecchi 2010).
Avevo sentito parlare di questo libro due anni fa, o forse tre. L’autore era venuto in trasferta a Bologna per presentare il suo romanzo precedente (Italian Fiction, ISBN 2007), un libro sui cosplayers (e, per la cronaca, la presentazione si teneva in quella stessa libreria che compare, sotto falso nome, anche in GND, la libreria Interno 4 di Bologna). A quel tempo, Michele Vaccari stava già lavorando al suo successivo progetto, di cui erano già chiare le linee narrative principali. Mi aveva incuriosito, anche se mai avrei potuto pensare che il libro avrebbe fatto il verso, nel titolo, a una delle mie ossessioni principali: “Giovani, carini e disoccupati”. I film, voglio dire. E anche il titolo, un tricolon di superbo andamento.
“Giovani, nazisti e disoccupati”, nell’italia del 2010 suona un po’ come dire un ipotetico “Precari ma belli”. Una corruzione dell’Italia anni 50, che invece del boom trova una generazione di scoppiati. In fondo, buona parte della narrativa e della cinematografia milleurista (o senzanalirista che dir si voglia) potrebbe dimorare sotto un simile titolo. Il libro di Michele Vaccari no. Fa eccezione. Quel “nazisti” nel titolo, del resto, è lì a dimostrarlo. Sfrigola come soda caustica sulle piastrelle del bagno. Leva ogni senso al termine “giovane”, ogni sorriso, ogni risata registrata.
Il protagonista del romanzo, difatti, non è un giovane. Pur avendo vent’anni, si sente vecchio. Non vecchio: decrepito, inamovibile. “Sentirsi vecchi condizione propria della giovinezza è”, parafrasando le parole rivolte a un’altra giovane-non-giovane dell’attualità letteraria, la Modesta de L’arte della gioia. Ma di sicuro, la condizione descritta da Vaccari stona con quella dominante, oggi. E anche il suo protagonista stona.
I giovani sono decrepiti pur sentendosi invincibili, e nuovissimi. Sono così i giovanissimi aderenti alla nuova estrema destra italiana, quei giovanotti che indossano le magliette del Blocco Studentesco come se fossero gli slogan di Renzo Rosso (slogan come “La nostra rivoluzione sarà una ficata”, dicono niente?). Vecchi che si sentono giovani sono anche gli eterni studenti, i neo-trentenni che non si rendono conto di procedere a larghe falcate verso gli -anta, invecchiati nei loro gilet e nei loro rasta; e i punkabbestia (o -bbancomat, o -mmerda come li chiama folkloristicamente l’io narrante di Vaccari) eterni fuori-sede e fuori-corso, i giovani dello sballo che, negli anni del ritorno all’eroina, ricominciano a chiamarai “tossici”. I precari, persino, quelli che si barcamenano tra un contratto e un aperitivo. Si può scegliere di opporsi a tutto questo mediante l’impegno, la serietà, il lavoro. Oppure NON si può scegliere, e allora si subisce. Certo, anche non scegliere e’, spesso, una scelta. Il non-giovane del romanzo ne è l’esempio. La sua rabbia è eccessiva, svapora senza esplodere, per il troppo bollore.
Giovani, nazisti e disoccupati è un romanzo, o forse persino un racconto lungo, è un “nero” che di “nero” ha solo il colore di certe ambientazioni politiche, ed è un libro ben scritto, con voce e ritmo credibili, forse qualche incertezza di ambientazione e qualche schematismo nella trama, ma un incipit superbo e un finale che non delude. Ma è, soprattutto, un grido d’allarme, un “Non sottovalutateci” (o “sottovalutateLI”, non so) lanciato da quella che non si sente una generazione, al massimo un’accozzaglia di singoli, di individui sull’orlo del fallimento. Un “non sottovalutateci” gridato da chi è inetto, ma che mostra – mediante il ricorso a una metafora politica, quella del nazismo, forse iperbolica ma per nulla infondata – a che cosa può arrivare l’inettitudine, lasciata a se stessa. Un urlo che è una contraddizione in termini. Ma vera, e bruciante.