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enjoy! (finché dura)

In attitudine popular, cinema, generazioni, this is the end of the world on dicembre 10, 2011 at 8:38 PM

Questa recensione è uno spoiler, nel senso che oltre a togliere ogni possibile dubbio sul finale del film di cui parlo Melancholia (2011), ne rivela anche diversi episodi di rilievo. Ma a voler essere rigorosi, il film è in partenza uno spoiler di se stesso, dato che anticipa il proprio finale e le proprie sequenze salienti nelle spettacolari e nelle sequenze d’apertura, dei veri e propri tableaux vivants che raffigurano la Passione del Mondo in slow motion, stazione dopo stazione. È lo stesso Lars von Trier, del resto, che ritiene necessario rivelare da subito la conclusione (“una specie di lieto fine”, come la definisce non senza una notevole dose di ironia) per evitare che il lettore sia distratto dalla suspence:

 Indeed the ending was what was in place from the outset when he started to work on the idea of ‘Melancholia’, just as he immediately knew that the audience needed to know it from the first images of the film.
«It was the same thing with ‘Titanic‘,« he says as he assumes his favourite interview pose, lying on the faded green cushions on his exuberant couch, arms flung over his head. »When they board the ship, you just know: aw, something with an iceberg will probably turn up. And it is my thesis that most films are like that, really.»

Da Longing for the End of All, intervista di Nils Thorsen (leggibile per intero qui)

Trattando della “fine del mondo”, Melancholia è facilmente ascrivibile alla categoria della fantascienza. Eppure verrebbe voglia di far proprie le riserve che Margaret Atwood, nel suo recentissimo In other worlds (Signal 2011), esprime sulla propria opera, dichiarandosi creatrice di mondi e di finzioni, ma non di finzioni “scientifiche”. Così anche Von Trier, che si astiene dal giocare con i registri della verosimiglianza scientifica e della verità, ma prende la visione dell’apocalisse a fondamento di una riflessione sull’uomo e sulla fragilità della sua psicologia.

Tuttavia, il fatto che un film come questo si occupi della fine del mondo esprime qualcosa d’importante sul nostro presente. In primo luogo, racconta della nostra percezione di civiltà al collasso, la nostra ansia apocalittica (tema esplorato da molti in questi anni, compreso un autore come Zizek nel suo Living in the end times, Verso 2010, ora disponibile in italiano per i tipi di Neri Pozza). Quasi che dall’“Enjoy!” di capitalistica e post-moderna memoria sia ormai indispensabile passare a un “Enjoy it while it lasts!”, consapevoli che non durerà ancora a lungo. Non è un caso, dunque, che Melancholia rappresenti la fine del mondo come un’accettazione – risparmiandoci le corse contro il tempo alla Armageddon, le astronavi in fuga verso l’ignoto e le immancabili derive complottiste della fantascienza apocalittica propriamente intesa. La fine del mondo è già tra noi, e non è qualcosa che sia in nostro potere impedire.

In secondo luogo, colpisce il fatto che la fine del mondo sia narrata non con le modalità di un “dramma fantascientifico”, ma con quelle di un dramma familiare (e l’ispirazione dichiarata è a Le serve di Genet). Certamente questa scelta ha origine nella genesi stessa del film – la volontà di Von Trier di esplorare un aspetto sociale della malattia, il fatto che “i depressi siano più calmi nelle situazioni di emergenza perché hanno già delle aspettative negative sul futuro”. I depressi vivono in una condizione che è già un’apocalisse permanente – tanto più ora che mezzo mondo occidentale sembra vivere in una sindrome da stress post-traumatico. L’etica dei depressi – impietosamente dimostrata da una sequenza del film – è che il mondo in cui viviamo è già cenere. Nessun inferno può essere peggiore di così. Ed è certamente quel che prova Justine (interpretata dall’incredibile Kirsten Dunst)– nome ispirato alla creatura di Sade, ma anche evocativo di Juno, Jupiter, e della giustizia personificata –, trasfigurata in un simbolo sotto la fredda luce dell’altro pianeta. Ma in questo contesto, Melancholia diventa anche una parabola sulla nostra assenza di misura e il nostro antropocentrismo “I promise it won’t hit Earth”, dice il personaggio di John  (interpretato da Kiefer Sutherland) a Claire, come  le traiettorie degli astri dipendessero dai calcoli degli scienziati. E da questo punto di vista, il grande merito del film è la sua capacità continua di scivolare tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra macrocosmo e microcosmo. Ed ecco che una patologia percettiva (la mancanza di empatia sociale, l’incapacità di percepire le realtà intermedie) permette di raggiungere un risultato filosofico: restituire allo sguardo quell’extra-mondità che sola può guarire la nostra «démesure».

Melancholia è un film troppo bello e troppo brutto allo stesso tempo. È un film “brutto”, che non scorre, le cui siderali lunghezze ci mettono a disagio, un film sconnesso, fatto di due parti asimmetriche e in collisione – come i pianeti di cui narra, come le due sorelle Justine e Claire, come il macrocosmo e il microcosmo chiamati a specchiarsi l’uno nell’altro. Ma è anche un film eccessivamente bello, estetizzante, che usa la lucida compiutezza dell’immagine per dire ciò che non si può dire – fino al nero che conclude il tutto: il non-detto come unico spazio per l’assenza di futuro. E il futuro è un registro ambiguo, a metà fra l’onirico e il trasfigurato (i due modi con cui la narrativa, filmica o letteraria, riesce a dire la catastrofe, ad affrontare, mediante la trama di infiniti “mondi possibili”, la sfida di dire il nostro “poterci non essere”, la radiazione di fondo emessa dal nostro possibile morire.

Non esistono piani intermedi tra quello cosmico (dove il tempo eccede qualsiasi possibilità di immaginazione umana) e quello dei piccoli conflitti interni all’individuo (conflitti tra la rappresentazione sociale e il dolore esperito dall’individuo, conflitti tra membri della stessa famiglia, ma anche conflitti tra semantiche, tra significati apparenti e implicazioni latenti). I personaggi obbediscono a impulsi propri, bambole meccaniche di un universo chiuso e auto-alimentato. Un universo in cui non occorre provvedere alle necessità materiali, in cui l’onnipresenza del denaro è segnalata in primo luogo dalla sua invisibilità; come una corrente segreta e sotterranea, il denaro e il lusso, uniti a una raffinatissima e decadente assenza di gusto, modellano i rapporti tra le persone, si sostituiscono ai flussi di empatia.

Eppure, sembra dirci il film (soprattutto alcune inquadrature, come la scena in cui due globi di marmo, accostati tra loro, suggeriscono l’impatto delle sfere celesti) l’immensità del nostro cosmo è tutta racchiusa nel nostro microcosmo, se solo fossimo capaci di leggerne le nervature e le simmetrie; e davvero la fine del mondo ci colpirà così, inconsapevoli fino all’ultimo, persi nei giardini segreti della nostra anima mentre tutto intorno il mondo si prepara a esplode e ritorna al suo silenzio primigenio.

finisterre

In road post on novembre 16, 2011 at 5:04 am

C’è una frase del romanzo Cat’s Eye [Occhio di Gatto] di Margaret Atwood che dice più o meno questo: scappi verso Ovest, ma a un certo punto arrivi qui e non hai un altro ovest dove scappare. Parlava di Vancouver, ma forse vale anche per San Francisco. Volksvagen Blues di Jacques Poulin è il romanzo di viaggio per eccellenza della letteratura quebecquois (non esattamente un capolavoro, ma un classico sì), ed è scritto come un viaggio-ombra di On the road. Termina proprio su questa baia, e arriva alla stessa conclusione: “La vita è dura per tutti. C’è chi non regge, si abbandona alla corrente e si lascia cadere. Attraversano Chinatown, e vanno a buttarsi su Market St”. Sono quasi le stesse parole che ha usato ieri un amico che vive qui da un paio d’anni. Arrivano qui, sospinti dall’onda lunga, e qui si arenano. Seduti alle sponde di un mito.

Appena arrivata, ancora sulla fermata della BART, invece, ho visto una ragazza bionda che leggeva On the road. L’immagine mi ha fatto tenerezza, una specie di romanzo al quadrato. Cerco invano di carpire la mitologia di questi luoghi, ma proprio non mi riesce. In questi giorni, ho visto una città viva, bella, povera a tratti, spezzata da faglie visibili e invisibili, una città vera dove girare, e non un mito, non un confine. Almeno, non quel confine. Fino a ora. Seduti sul limitare del mondo, al margine di un mondo che sta finendo.

Ci sono solo coppie sul finisterre, quasi fosse impossibile arrivare qui da soli e senza qualcuno con cui condividere l’esperienza. Coppie di bambini che si lanciano sabbia e parole, coppie di corvi e di gabbiani dai colori in contrasto, coppie di innamorati che si tengono per mano, una coppia di operai ancora in tuta da lavoro, che bevono dal sacchetto di carta. La nebbia avvolge la collina, nasconde le cime degli alberi, trasforma mare e cielo in un’unica dimensione sospesa. Di nitido, restano solo i colori acidi dei graffiti su questo muro che protegge il mare dal rumore di Great Hwy, relegando il traffico a qualche luogo in alto sopra le nostre teste. In cima alla collina c’è una vecchia costruzione dismessa trasformata in un ristorante. La riconosco anche da questa distanza, ci sono stata l’anno scorso. Ospite. Da quell’altezza, il bordo dell’oceano e la spiaggia sembravano lontanissimi, ma riconosco la prospettiva, e oggi sono un punto minuscolo di una fotografia scattata distrattamente poco più di un anno fa. La vita è così ciclica, e così imprevedibile, allo stesso tempo.

Ma io sono arrivata fin qui sulle mie gambe, non sospinta da nessuna corrente, e non ho voglia di voltarmi proprio adesso. Prendo qualche minuto di pausa, mi siedo su uno dei muretti che dalla strada guidano i passanti sulla sabbia. Il livello del mare e del terreno non coincidono, creano anzi un inganno alla vista. Le dune da qui sembrano altissime, nascondono la riva ai miei occhi, e ho la sensazione di sedere in una fossa tra due mucchi di sabbia. Siedo con le gambe ciondoloni, annotando qualche idea sul mio quaderno. Devono essere passati dieci minuti, e una voce mi costringe ad alzare la testa.
“Stai scrivendo il tuo diario?”
Alzo gli occhi e vedo un ragazzone nero e vestito di abiti da rapper di un nero stinto, compreso il cappello da baseball. Fuma con un pretenzioso bocchino di plastica bianca, ma ha le guance lisce e comunque non ho molte alternative, se non rispondergli.
“Quasi”, gli dico.
“Posso leggerlo?”, mi chiede, mettendosi a sedere al mio fianco senza aspettare il permesso.
“E’ in italiano”, gli dico.
Sgrana gli occhi incuriosito. “Che bella grafia”, commenta alla fine, “la mia fa veramente schifo”.
Non so perché, ma ci credo.
Sa un po’ di spagnolo, sostiene, e così tira a indovinare sulle poche parole che riesce a leggere.
“Questo vuol dire ‘mangiare’, vero?”.
“No, quello è ‘comér‘, in spagnolo. ‘Come’, in italiano, vuol dire, like”.
Andiamo avanti così per qualche minuto, con lui che non ne imbrocca una. Finalmente mi chiede di tradurgli una pagina in inglese. Questo non potrei farlo nemmeno se volessi, e glielo spiego: i miei sono appunti, note prive di senso compiuto, che rielaboro a casa, quando mi metto alla tastiera.
La cosa lo entusiasma. “È un metodo interessante”, commenta. “Io quando scrivo butto tutto così come esce, e fa schifo. Dici che se uno si mette a riscriverlo, migliora”?
“Potrebbe”, gli rispondo. “A me aiuta”.
La rivelazione lo ha soddisfatto, e se ne va tutto contento. “Ciao”, mi dice, “spero di rincontrarti”.
Lo saluto con la mano, e aspetto che sia sparito completamente dal campo visivo. Poi mi alzo, scuoto la sabbia dalla giacca, e ricomincio a camminare. Verso il Pacifico.