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riflessioni su Yves Citton. “Mythocratie. Storytelling et imaginaire de gauche” [4 novembre 2011]

In a spasso tra i libri, repubblica delle lettere, taking action on novembre 16, 2011 at 5:35 am

51UOSDkhesL._SL500_AA300_Alcuni mesi fa, nel recensire il non-fiction novel HHhH. Il cervello di Heydrich si chiama Himmler (di Laurent Binet), Wu Ming 2 scriveva:

“Ho come l’impressione che in Francia il problema delle ‘tossine narrative’ sia stato posto in maniera sbagliata. Invece di interrogarsi su quali figure retoriche o bias cognitivi portano un narratore a manipolare il suo pubblico e a nascondere la realtà, si è deciso che raccontare storie equivale a spacciare frottole, sempre e comunque, salvo poi rincorrere un’incomprensibile contro-narrazione, come fa Salmon, o inchinarsi di fronte al “potere imponderabile e nefasto” della letteratura, come fa Binet.”

Come a dire che, nella cultura e nel dibattito francese, gli anticorpi sono più forti, ma ciò accade anche perché il “virus” delle narrazioni tossiche è più resistente, come il lavoro di Jonathan Littel (2007) ben dimostra, e questo virus finisce per invalidare in partenza la fiducia nel potere costruttivo, liberatorio delle narrazioni.  Non stupisce, dunque, che proprio dalla temperie francese sia emerso un illuminante contributo teorico sullo spessore politico delle narrazioni, e sul loro ambiguo potenziale. Mi riferisco a Mythocratie. Storytelling et imaginaire de gauche di Yves Citton, uscito nel 2010 e, a quanto mi risulta, non ancora tradotto in italiano [ne consegue che tutte le traduzioni del testo, e gli eventuali sfondoni, sono di mia mano. Ricordo inoltre che non traduco di professione e che il francese è la mia terza lingua…].

Il punto di vista di Citton si discosta da quello di Salmon, White, Jenkins e degli altri autori citati nella discussione. In primis, sono diversi lo sguardo, la prospettiva e gli strumenti impiegati. Citton non è un “tecnico” delle narrazioni (e poco importa che tale etichetta si riferisca a esperti di fandom, di letteratura, di racconto storico, di cultura pop, o a romanzieri di mestiere), ma un filosofo politico con una rigorosa formazione spinoziana. Non deve stupirci, dunque, che egli approdi all’analisi delle narrazioni con uno sguardo attento soprattutto ai problemi di sovranità e di autorità.

1. Narrazione e potere

Secondo Citton, il problema della narrazione è indissolubile dal problema del potere: un potere definito però in termini foucaultiani, più come “ciò che induce a fare”, che come “ciò che impedisce di fare”. Il riferimento è a uno scritto di Foucault del 1982 (“Le sujet et le pouvoir”, ora in Dits et écrits II, 1056), anche se, sempre in tema di narrazioni, torna in mente anche la riflessione formulata da Huxley nel suo Ritorno al mondo nuovo, dove si descrive il passaggio da una persuasione negativa a un’induzione attiva, alla base di un totalitarismo “light”.
250px-Leviathan_grServendosi di categorie che richiamano a tratti il pensiero politico di Spinoza e a tratti le formulazioni di Toni Negri, Citton definisce il potere come un circuito di “desideri” e “affetti”: le narrazioni, e i loro “agganci” (accroches) giocano dunque un ruolo capitale in tale captazione ed espropriazione affettiva delle moltitudini. Riprendendo l’esempio della moneta, alla quale si crede ma che rivela in una crisi la sua assenza di valore (e qui si intravede forse il Marx della Grundrisse), Citton propone la formulazione ambigua ma affascinante di un’ «economia degli affetti» (p. 29), che agisce mediante la mobilitazione affettiva e, in subordine, la captazione dell’attenzione. Il potere si definisce dunque come una “circolazione di affetti e desideri”, cui le istituzioni (a loro volta fondate da un flusso di credenza proveniente dalle moltitudini) danno continuamente forma (p. 49). In una simile economia, diventa centrale il ruolo giocato dalle mediazioni: tra queste, possiamo annoverare gli affetti, che producono determinate “aperture concettuali” del reale (il termine originale è “frayage”, letteralmente varco o passaggio, usato nel lessico della psicoanalisi).
Qui Citton sembra trovarsi in sintonia col pessimismo espresso da Salmon nel suo Stortytelling: il filosofo individua infatti una vera e propria dittatura del pubblico, il cui potere è storicamente determinato da un mix di fattori (democrazia formale, crescente mercificazione di beni, diritti e servizi, centralità della “produzione della domanda”, massificazione dell’istruzione, passaggio dal capitalismo industriale a quello cognitivo, superamento della “disciplina” a favore del “controllo” sociale, e da ultimo la natura sempre più globalizzata e intensa delle reti mediatiche). Il potere del pubblico è però apparente, parte di una circuitazione ben più ampia di valori, affetti e saperi: “le mie scelte sono il luogo di un passaggio obbligato”, è l’efficace sintesi proposta in Mythocratie (p. 35). A questa constatazione, occorre dunque rispondere con una domanda: “Chi racconta la mia storia?”.

A differenza di altri autori attivi su questo terreno, Citton non chiama in causa le condizioni tecnologiche della nuova economia degli affetti. Il suo è chiaramente un modello trans-storico, adattato e calato al tempo presente. Non si nomina quasi mai la rete – se non come forma mentis, o come “forma complessiva” assunta dall’economia degli affetti – e l’autore mescola indifferentemente esempi presi dal mito greco (o meglio dalla tragedia, come le Eumenidi, citate a riprova della natura falsamente “pacificatrice” dei miti), dalla Repubblica delle Lettere illuminista (Diderot) e dalla più stretta contemporaneità (il jazzista Sun Ra, le esperienze comunicative di Luther Blisset e di Wu Ming). Rispetto alle forme della comunicazione contemporanea, la nota più significativa è forse quella in cui Citton denuncia l’onnipresenza mediatica (e quindi la maggior difficoltà, per le storie, di attirare la nostra attenzione) e il conformismo che porta a una continua ricerca di stimoli nuovi, a un’innovazione fine a se stessa (p. 73): atteggiamento che – riprendendo una formula di Eric Macé, Citton ribattezza “conformismo instabile” (e mi viene qui spontaneo pensare per un attimo al personaggio di “Candido l’innovazione”, o a certi presunti “giovani” del nostro triste panorama politico).

2. Che cos’è una “narrazione”?                                   

Come funziona, dunque, una narrazione? Come un produttore di senso. Con una frase che avrebbe benissimo potuto scrivere Adriana Cavarero, Citton spiega che “narrativizzando gli eventi, do loro senso” (p. 73). La narrazione è infatti “una macchina fatta per catturare le nostre convinzioni e i nostri desideri”, ma anche per “rivalutare” determinati valori, o, ancora, per trasformare la società. La trasformazione è, del resto, uno degli elementi chiave per distinguere ciò che è racconto da ciò che non lo è. Citton si serve qui della riflessione proposta da Francesca Polletta in un fortunato studio del 2006 (It was like a fever. U of Chicago Press), e individua le caratteristiche inerentemente politiche della narrazione: trasformazione, presenza di un attore e di più punti di vista, unità del racconto e coerenza causale (non necessariamente coincidente con le leggi causali del mondo extra-narrativo), associazione di un dato “valore” a ogni stato del processo trasformativo (pp. 68-70). Come è facile intuire, valore, molteplicità dei punti di vista e trasformazione, oltre alla categoria del tempo (implicitamente contrapposto alo spazio) sono i principali elementi che permettono l’impiego politico di una storia, o la trasformazione di un paradigma precedentemente assodato.
Ancora una volta, balza agli occhi la natura politica e sociale di tale riflessione: Mythocratie è un libro orientato all’agire, non alla riflessione teorica fine a se stessa. A tal proposito, Citton compie una fondamentale chiarificazione, distinguendo il momento della narrazione vera e propria, e quello che egli definisce “scénarization” (una dicotomia che proporrei di tradurre come “produzione di storie” vs. “produzione di scenari”, o come “narrazione” vs. “sceneggiatura”, evitando in tutti i casi faticosi neologismi) (p. 100). Si tratta, a mio avviso, del contributo teorico più importante dell’intero volume, foriero di utili spunti. Ad esempio, continuando il ragionamento di Citton, potremmo notare come la produzione di scenari sia implicitamente legata alla produzione di paradigmi generali, mentre il racconto è un’attività isolata e orientata a un circuito di destinatari; il racconto è inoltre, un’attività dichiaratamente intersoggettiva, mentre la produzione di scenari si basa sull’occultamento dei propri enunciatori.
Il contributo principale di Citton, a tal riguardo, è soprattutto di natura politica: egli investiga il funzionamento sociale della produzione di scenari e di narrazioni, prendendo in esame la disparità gerarchica nel controllo dell’immaginario (o, potremmo dire con una formulazione di sapore marxiano, il controllo dei “mezzi di produzione” dell’immaginario). Se la narrazione, infatti, ha come domanda fondamentale “come narrare efficacemente?”, la domanda della produzione di scenari riguarda l’influenza esercitata sui destinatari (p. 142). Ancora, la narrazione “capta flussi di desideri e di convinzioni in funzione della virtù propria di chi racconta e del suo racconto”; la produzione di scenari, invece, “capta i flussi di desideri e di convinzioni in funzione dell’accesso – di cui già dispone – all’attenzione di un pubblico” (p. 142). Così, mentre la narrazione è uno strumento eminentemente politico e trasformativo, la produzione di scenari è alla radice dell’attuale egemonia culturale della destra. Esempi di quest’ultima sono l’uso del logo e alcune sindromi politiche, tra cui un posto di rilievo spetta alla “sindrome Berlusconi”, caso in cui i detentori del controllo sull’informazione, “mediante il loro discorso, i loro organi stampa, le loro radio e le loro televisioni, possono senz’altro nutrire le convinzioni che permettono di dirottare su una certa categoria di stranieri le frustrazioni che una certa parte della popolazione italiana prova verso i processi economici, sociali e politici all’origine di una crescente vulnerabilità” (p. 143).
La distinzione tra produzione di storie e di scenari, a mio avviso, è ciò che distingue il modello di Citton da un certo generico ottimismo sulle narrazioni ed è fondamentale per capire come mai le narrazioni di sinistra siano, oggi, pressoché inerti di fronte alla potenza di fuoco degli scenari di destra. Parafrasando un grandissimo pensatore politico, mi sento di suggerire che le narrazioni senza capitali, senza numeri (economici o demografici) e senza eserciti siano come dei profeti disarmati. Una condizione su cui è opportuno – come ha fatto Citton – interrogarsi a fondo.

3. Quale sinistra per il futuro?

Come tutti i libri di questo tipo, Mythocratie si sofferma in dettaglio su un modello analitico o su quello che potremmo definire una pars destruens, ma glissa quando si arriva nei pressi di una possibile pars construens o – più correttamente – di pratiche per invertire la tendenza. Tale pars costruens, sebbene meno sviluppata, non è tuttavia assente dal volume, e si articola in due momenti principali: da un lato, Citton esamina pratiche alternative, come la riflessione proposta dai Wu Ming in New Italian Epic; dall’altro lato, Citton propone una propria lista di priorità per una nuova rappresentazione politica della sinistra.
Preferisco non dilungarmi sulle riflessioni che Citton dedica al New Italian Epic, dato che si tratta di testi e discussioni largamente accessibili a chi vive in Italia; mi limito a sottolineare come del discorso sul NIE Citton metta in rilievo non il presunto trionfalismo delle narrazioni “epiche” ma al contrario la tensione all’ “eccentricità” e alla resistenza, mettendole in relazione ai paradigmi di Jean-Luc Nancy. Su queste basi, il filosofo propone non di compiangere la pretesa impossibilità di racconto per una comunità irrimediabilmente perduta, ma di rilanciare un’epica interrotta per una comunità in fieri (un’epica rapsodica, forse?).
La riflessione sui compiti della sinistra è invece in larga parte inedita da noi, e merita quindi un resoconto più dettagliato. Riprendendo la tradizione del compte philosophique, Citton illustra il paradigma dominante nei nostri tempi, quello della “Crescita regina”, cui aderiscono tutte le forze politiche – compreso l’operaismo vecchio stile e l’attuale social democrazia mutagena, rispettivamente ravvisabili nelle vesti della “Fée Prolétarienne” (Fata Proletaria) e della “Fée Mielleuse” (Fata Sdolcinata). Tra le vane proteste della sinistra radicale e le evoluzioni pubblicitarie della socialdemocrazia, la carrozza sociale continua la sua folle corsa verso la crescita infinita: in tale contesto, il guastafeste (qui ribattezzato Fée Maladroite, “Fata Pasticciona”) che proponesse una brusca sterzata a sinistra avrebbe poche probabilità di essere ascoltato.
In questa narrazione anche un liceale riconoscerebbe un travestimento polemico di Mandeville: ma se nel 2010, e fino a ieri, il ruolo del guastafeste non sembrava corrispondere ad alcuna delle forze politiche in gioco, ora questo spazio di senso è stato riempito dalla marea montante del movimento OWS. Più precisamente quella del guastafeste è una storia che sta guadagnando forza, che cresce come una slavina, proprio ora mentre scrivo queste righe. Più che mai, dunque, è opportuno interrogarsi sullo spazio di responsabilità sociale e politica aperto da questa narrazione; e farlo non solo con uno sguardo “strategico” (come guadagnare attenzione e vincere l’ostilità di un pubblico ancora largamente influenzato dagli ‘scenari’ della destra?), ma anche etico, per gestire al meglio le responsabilità politiche di una narrazione di successo ed evitare di trovarsi, seppur inconsapevolmente, a bordo della stessa carrozza lanciata verso il nulla.