La ragazza è carina, con una massa di capelli lisci castano scuro che le si sciolgono sulla schiena. Ha un sorriso fresco, un corpo appesantito ma sodo, lineamenti belli e generosi. Si fa largo indossando shorts mozzafiato (con questo caldo ci può anche stare) e una borsa da mare di stoffa celeste, grande, che non capisco come sia stata autorizzata all’interno di una Biblioteca Nazionale, e specificamente di una sezione contenente libri pregiati, cataloghi, manoscritti e rari. Poi mi ricordo che, a differenza dell’ingresso, il passaggio dallo stanzino con gli armadietti alle sale di consultazione non è sorvegliato, per cui il rispetto delle regole enunciate è affidato al buon cuore dell’utente (il che, devo dire, solitamente funziona).
Trascinandosi per la sala, si rivolge in tono lagnoso agli addetti: “Devo fare un’analisi di un film…”
L’addetto, che già di suo non sprizza entusiasmo, la guarda con fare interrogativo.
“Non so proprio cosa devo fare,” finisce di articolare lei.
Il bibliotecario, per fortuna, è uno di quelli all’antica, e non un semplice distributore di libri e giornali. Uno di quelli che magari, di solito, hanno i tempi di reazione di un orso in letargo, ma all’occorrenza si trasformano in supereroi capaci di indirizzare e consigliare anche l’utente più smarrito. “Guardi nella sezione recensioni”, dice alla ragazza, “qui abbiamo un catalogo per soggetto e anche un catalogo di recensioni ordinato per titolo”. Il titolo, già, ammesso che uno se lo ricordi. La ragazza estrae laboriosamente un foglietto con un titolo scarabocchiato. “Sentieri selvaggi”, sillaba. “John Ford”, aggiunge poi.
Vaga tra le diverse cassettiere del catalogo cartaceo per alcuni minuti, con l’aria sperduta. “Allora signorina, ha trovato qualcosa”, domanda il bibliotecario che è tornato dentro a controllare. “No, non trovo niente,” dice lei, contemplando le mattonelle del pavimento.
“Aspè, jà”, esordisce lui. E di sua iniziativa le trova due titoli di critica su John Ford di cui è al corrente. Glieli molla sul tavolo e le manda una collega che l’aiuti a cercare tra i periodici e a compilare i moduli di richiesta. A un certo punto la ragazza, che ha preso confidenza con le cassette, ci espone il problema: “Qui ci sono solo libri con la V e la VU doppia”. Io e un’altra utente ci guardiamo costernate. “Ma scusa, guarda nelle cassettiere di fianco.” “Ah. Non c’è!” risponde stizzita, prima che l’altra utente (che sta evidentemente facendo ricerche su Vittorio Pica e il decadentismo napoletano) si alzi ad additarle, tre cassetti più in là, la cassettiera che inizia per F, effe come Ford.
Entra in azione la seconda bibliotecaria, quella dei periodici. Insieme scoprono che su un qualche numero di Ciak! il film è stato recensito. Casomai, dopo, dice il primo bibliotecario, ritornando. “Comincia da questi”, ordina alla ragazzetta indicandole i libri da lui trovati, “che sono di base”.
La compilazione delle carte (il tutto, s’intende, a toni di voce da pescherie generali), avviene con modalità simili: lei che fa la svampita e gnola rifiutandosi persino di provare a leggere, i bibliotecari che finiscono per compilarle loro carta d’ingresso, moduli e già che ci sono anche la dichiarazione dei redditi per l’anno prossimo. Per tutto il tempo dell’operazione, a tratti lei riprende la tiritera: “Devo fare un’analisi di un film… non so come fare…” e la bibliotecaria le risponde di sì.
Finalmente tutto tace. La ragazza è alle prese con il suo libro. Dopo tre minuti dà di mano al cellulare. “Pronto… Sì sto qui alla Nazionale… guarda, già ho malditesta… una cosa complicatissima… Sì… Sì…”.
La telefonata si interrompe. Altri cinque minuti, un’altra telefonata. “Sì, sto già qua. No, aspè è complicatissimo. Chiamami quando arrivi che ti vengo a prendere io. Sì. Sì. Mamma mia. Vabbùo.” Mette via il telefono. Dopo tre pagine si volta verso di me e mi chiede, “Scusa, posso chiederti una cosa?”.
“Dimmi”.
“Sai se i libri si possono sottolineare?”
Osservo con un’occhiata preoccupata gli evidenziatori multicolori che prorompono dall’astuccio Hello Kitty. “No, assolutamente”, dico io. “Infatti, mi sembrava.” E tira fuori la matita. Intervengo, da brava maestra che non stacca mai: “Scusa ma ti ho appena detto che non vanno sottolineati!”.
“Nemmeno con la matita? Ma perché?” domanda con gli occhi sgranati.
Indovina, mi verrebbe da dire.
“E io come faccio?”
“Prendi appunti. O ti fotocopi le pagine che ti servono. O scendi al piano di sotto e vedi se lo stesso libro da un’altra collezione te lo danno in prestito.” Gli occhi una girandola. “Come, te lo danno in prestito?” (Ricordo che siamo in una biblioteca) “Sei residente?” “Sì”. “Allora chiedi ai bibliotecari, ti spiegano loro come fare”.
“Stai facendo gli orali?”, chiedo poi, per mitigare il teutonico rigore di prima. Sperduta com’è, sembra una ragazzina alle prese con la maturità. Avrei detto l’esame di terza media, se non fosse già quasi luglio.
“No… sono al secondo anno di università,” aggiungendo il nome di una triennale che riguarda, a quanto capisco, le arti, la fotografia e il cinema.
Capitombolo dalla sedia. Al secondo anno di università e non hai mai messo piede in una biblioteca? Non hai mai compilato una scheda di consultazione? Mai usato un catalogo? Ma come si fa a uscire indenni dal primo anno di università senza mai, dico, mai passare da una biblioteca, leggendo solo dispense e appunti evidentemente presi da qualcun altro? Possibile che una persona esca così da tredici anni di scuola (elementare, media, superiore) e almeno uno di università?
La ragazza, che ormai vede in me un volto amico, ne approfitta per sfogarsi e gnolare anche con me. “Devo fare quest’analisi di un film per un professore… ma lui è pignolo proprio… non vuole che si copi da internet”.
Eh, le tragedie della vita.
Poi un lampo. “Ma tu? La sai fare un’analisi di un film? Mi aiuti tu?”
No, guarda, mi dispiace. Ho da fare. E poi forse non te l’ho detto, ma studio chimica.
PS: Ho trovato, per un euro, a una bancarella, Le parole sono pietre [1955] di Carlo Levi. Bellissimo e a tratti commovente. L’edizione è un tascabile Einaudi, classificata tra le “Letture per la scuola media“. Ricordando che in quella scuola media la maggioranza dei ragazzi italiani non ci imparava molto (nel 1997, quando mi iscrissi alle superiori, l’obbligo scolastico era ai 14 anni e il 40% della popolazione scolastica si fermava al diploma delle medie inferiori), mi rifiuto di far l’elogio dei bei tempi andati o delle scuola di una volta. Ma c’è una forbice, un divario tra la realtà dei molti e l’utopia dei pochi, che se pur ridotta nominalmente, non è stata colmata appieno, dal 1963 ad oggi.