1. Beasts of the southern wild.
Dopo aver guardato Beasts of the southern wild, sono uscita dalla sala del cinema in preda a sensazioni ambivalenti, ma senza stupirmi del successo incontrato alla prima proiezione al festival di Cannes. Perché con una storia del genere, attori del genere, e una fotografia di tale qualità, è tecnicamente impossibile non strappare applausi.
Beasts of the southern wild è un film visivamente perfetto, di una bellezza selvaggia (l’aggettivo non è scelto a caso) e struggente. Nel fotogramma che ha fatto il giro di tutte le cartelle stampa, c’è l’anima del film: una bambina di 6 anni, la protagonista “Hushpuppy” (interpretata dalla strepitosa Quvenzhané Wallis), dalla tempra indomabile e dai capelli intricati come una mangrovia, che sprizza energia e faville dalla punta delle dita.
Una fantascienza tutta d’ambientazione, basata sulla proiezione lineare del nostro presente ed evocata in pochissimi tratti. Il mondo di Beasts of the Southern Wild è in preda alla trasformazione: i poli si stanno sciogliendo e il mare è destinato a innalzarsi di decine e decine di metri, cancellando ampie aree di quella che oggi conosciamo come civiltà umana. Cinefili e appassionati non devono tuttavia aspettarsi catastrofi brusche (ed esteticamente mediocri) in stile The day after tomorrow. La trasformazione è appena accennata, lenta, lasciata intravedere per piccoli indizi. Nella sua denuncia, il film parla soprattutto del presente: neanche lo spettatore più sprovveduto riuscirebbe a non cogliere il riferimento uragano Katrina, alla gestione del Superdome e alla politica razziale attuata dall’amministrazione Bush in occasione di quel tragico evento.
Anche visivamente, il lavoro è opera di qualcuno che ha profondamente riflettuto sulla natura dei confini. Lo spazio della comunità (idealmente creola, ibridata e “sporca”) sfugge alla dicotomia utopico/distopica: è un’eterotopia foucaultiana, ciò che il cultore di fantascienza Darko Suvin (un mai troppo citato genio della teoria letteraria contemporanea) considera come una forma di immaginazione fantascientifica. Quello di Hushpuppy e di suo padre Wink (nel film, interpretato da Dwight Henry) è un mondo governato da altre leggi, tanto sociali quanto fisiche: vigono un’altra scuola e un’altra nozione di famiglia, un’altra legge civile regola la nascita il battesimo e la morte; persino la fisica obbedisce ai principi del realismo magico per cui ogni cosa si trasforma incessantemente e nulla, in fondo, muore. L’aspetto più politico del film, a mio avviso, è proprio questo: non la “denuncia” del riscaldamento globale e della crisi ecologica, ma la rappresentazione degli spazi e dei confini che vi prende piede. È un confine segregante l’argine costruito dagli abitanti – non a caso bianchi – della città per arginare non solo la marea montante ma anche il “nomadismo” e l’assenza di regole della comunità di “diversi”. E non è un caso che il viaggio dei protagonisti si concluda su uno spazio liminale, una “no man’s land”, una lingua di terra che non è né mare, né sabbia. L’incertezza nebbiosa dell’ultimo fotogramma sembra fornire l’unica possibile rappresentazione del “futuro”, il tema cui rimanda peraltro l’intero racconto, nel significante della sua protagonista bambina.
2. Il futuro comincia adesso
«Frankly, our ancestors don’t seem much to brag about. I mean, look at the state they left us in, with the wars and the broken planet. Clearly, they didn’t care about what would happen to the people who came after them» (84). Sono parole tratte da un’altra epopea distopica/post-apocalittica, Mockingjay, il terzo volume (per la verità assai mediocre, e inferiore ai primi due) della trilogia The Hunger Games. Siamo sempre nello stesso tema: l’infanzia come specchio (e metafora) dello spazio che il nostro mondo dedica, davvero, al futuro anteriore[1].
Abusati e traviati come gli adolescenti dell’America neo-pagana di Suzanne Collins, o liberi e selvaggi come l’indomita Hushpuppy, i bambini sono il simbolo del futuro, e stanno lì a denunciare della mancanza di rispetto per il futuro che la nostra società pratica su basi direi quasi scientifiche. Il futuro di rifiuti e scorie che lasciamo in eredità ai nostri discendenti si metaforizza nelle piccole vite di questi protagonisti, in bene o in male. Simboli di speranza e di rinascita secondo i criteri del più antico messianismo, ma anche pronti ad ammonirci col loro sguardo straziato, testimone della più intollerabile delle violenze.
L’idea che i bambini siano (più che il mondo, come cantava Michael Jackson, uno che con l’infanzia aveva una relazione complicata) il futuro è, a mio avviso, un altro dei mitologemi d’inizio secolo. Ci aveva già provato 6 anni fa Alfonso Cuaròn in quel brutto film che è Children of Men (trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di P.D. James), un racconto infarcito di valenze religiose e messianiche malgrado il suo sbandierato odio per il ‘fanatismo’ (stigmatizzato almeno in due personaggi, il puro guerrigliero di colore e il guerrigliero bianco-rasta, razzista inconscio e, presumibilmente, figlio di papà). E, per rientrare in Italia, anche lo zombie-book I primi tornarono a nuoto di Giacomo Papi (Einaudi 2012) si conclude con la stessa scena: nell’oscena inversione della vita e della morte, una madre salvata dal linciaggio che procrea, un vagito come segno della speranza che rinasce.
L’immaginazione che attribuisce ai bambini poteri salvifici è potente come quella che nei bambini vede una minaccia o un’incarnazione del male: ci sarà sempre un fortunatus puer da contrapporre ai non-nati, agli elfi, ai bambini senza tempo di Running Wild di Ballard, di Lord of Flies di Golding, del già citato Hunger Games oppure di The Veldt, il terrificante racconto di Ray Bradbury. Per questo, nei film e nei libri distopici continuiamo a rivivere il mito di Noé (tra arche salvifiche e piccoli legni alla deriva) o, alternativa meno ovvia ma altrettanto pertinente, quello di Lot e delle sue figlie. Fateci caso: non c’è film catastrofico, dalla produzioni indipendente con velleità sperimentali fino alla peggior patacca da multisala, da Independence Day a 2012 a, appunto, Children of Men, che non contempli una scena dove l’Amico del Salvatore/Futuro Progenitore viene incenerito perché si sofferma a guardare la fine del proprio mondo, o (variante soft della precedente, il Salvatore/Futuro Progenitore si scuote appena in tempo dalla pericolosa attrazione per la catastrofe e si salva per un pelo).
Storie di speranza, di redenzione, di futuro, che ricordano allo spettatore distratto che esiste un’altra dimensione oltre al presente, una responsabilità verso quelli che verranno. Storie benefiche, a patto di non trasformare il bambino del futuro in un messia, in un idolo d’oro. Perché la tentazione di fare di queste storie dei messaggi a senso unico è molto forte, e produce discorsi senza senso. Come quello che ha fatto, appena due settimane fa, Ewan Morrison dalle colonne del Guardian, in un post (fintamente) provocatorio intitolato: What I’m thinking about … why capitalism wants us to stay single. Morrison tuona contro il consumismo implicito nell’idea di rimanere ‘single’ e ‘unattached’, non più una scelta controcorrente ma, al contrario, l’emblema del nuovo conformismo:
«It now makes economic sense to convince the populace to live alone. Singles consume 38% more produce, 42% more packaging, 55% more electricity and 61% more gas per capita than four-person households, according to a study by Jianguo Liu of Michigan State University», ha ammonito lo scrittore, scatenando le reazioni infuriate dei molti lettori che, oltre a doversi sorbire le domande invadenti della zia Clotilde a ogni pranzo di Natale, ora devono fare i conti coi sensi di colpa rispetto all’intero pianeta. Ed ecco la severa conclusione dell’autore.
Consumerism now wants you to be single, so it sells this as sexy. The irony is that it’s now more radical to attempt to be in a long-term relationship and a long-term job, to plan for the future, maybe even to attempt to have children, than it is to be single. Coupledom, and long-term connections with others in a community, now seem the only radical alternative to the forces that will reduce us to isolated, alienated nomads, seeking ever more temporary ‘quick fix’ connections with bodies who carry within them their own built-in perceived obsolescence”.
Ma se il primo vagito può produrre momenti di adorazione, e se può forse rappresentare un messaggio di responsabilità (più che di speranza), attenzione a non farne un simbolo universale, e a non trarne inferenze indebite. Perché in quest’epoca apparentemente bambino-centrica, che impone alle persone il dovere sociale (non morale, sociale!) di vivere il sogno familiare perfetto ma che eradica sistematicamente la possibilità di un vivere dignitoso per troppi esseri umani, in paesi dove le coppie spendono migliaia di dollari per un matrimonio e non hanno un’ora del loro tempo libero da dedicare al volontariato, in un mondo che considera dovere esporre su Facebook le foto del proprio neonato (il quale, ovviamente, non può rifiutarsi di essere esposto in quanto di più intimo si possiede, la propria nascita) ma se ne strafotte dei milioni di bambini che muoiono di denutrizione o di morbillo, il problema non è se procreare o non procreare, ma come educare.