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alleg(o)ria di naufragi

In a spasso tra i libri, this is the end of the world on febbraio 4, 2012 at 2:49 am

Alcuni giorni dopo il disastro della Costa Concordia, hanno cominciato a circolare immagini come questa:

Titanic come Costa Concordia? Probabilmente sì, ma non nel senso in cui lo intendono i numerologi da web, tra improbabili calendari maya e complotti da multisala di periferia. La mia ipotesi è che Costa Concordia e Titanic si assomiglino in quanto produzioni discorsive, in quanto rappresentazioni condivise che entrano nel nostro immaginario sovrapponendosi alle circostanze storiche. Per usare una parola pericolosa, si assomigliano in quanto “sintomi”. Nello scegliere questa espressione, già mi sembra di sentire la più prevedibile delle obiezioni: come si fa a parlare di “sintomo” di fronte a decine tra vittime accertate e dispersi? Ma che un evento sia leggibile come “sintomo” non toglie nulla alla tragedia delle sue morti, o alle sue disastrosi conseguenze ambientali ed economiche. Il problema, anzi è esattamente questo: che funziona come simbolo, nonostante e malgrado la sua portata reale. E che finché lavora sul piano simbolico, finché agisce come un sintomo, siamo impossibilitati ad agire. Ma facciamo un passo indietro di un secolo, a un altro mondo.

1. Eventi e sintomi

Già nel 1989, nel libro della sua consacrazione, The Sublime Object of Ideology, Slavoj Žižek rifletteva sulle rappresentazioni condivise di eventi catastrofici. Da dove ritorna il Rimosso, si chiede il teorico, parafrasando Lacan? “Dal futuro”, è la laconica risposta. Ed è proprio il “nodo di significati” racchiuso nel naufragio del Titanic a offrirgli l’esempio di questo “ritorno del rimosso”: con l’affondamento dell’inaffondabile Titanic, “l’impossibile era accaduto”, il “futuro” era arrivato.

Il naufragio della nave da crociera più grande del mondo era stato previsto, infatti, quasi letteralmente, da un romanzo di Morgan Robertson nel 1898, suggestivamente intitolato Futility. Le cause dell’impatto (la collisione con un iceberg), le misure della nave, l’insufficienza delle scialuppe, la hybris con cui entrambe le navi erano state dichiarate “inaffondabili”, e, da ultimo, persino il nome (Titan nella finzione, Titanic nella realtà): tutto, o quasi, era stato previsto (2009, 74-75). La coincidenza, naturalmente, non prova le capacità divinatorie degli scrittori (potere che è stato variamente attribuito a qualunque scrittori dotato di lungimiranza o di profonda capacità analitica, a cominciare da Pasolini); esso prova però che la letteratura (così come il cinema, l’arte, e la produzione di immaginario in senso lato) può generare gli orizzonti di senso, le iscrizioni simboliche in cui gli eventi reali trovano posto. Il Titanic, insomma, si inscrive nell’immaginario collettivo come una tragedia di quel tipo perché c’è un orizzonte pronto ad accoglierlo e a modellarne la ricezione; e questo orizzonte è talmente consolidato da aver dato origine, prima del fatto, a sue proiezioni letterarie. Usando le dirette parole dell’autore:

A cavallo tra i due secoli, era ormai parte dello Zeitgest che una certa epoca stesse per volgere al termine (l’epoca del progresso pacifico, di distinzioni di classe ben definite e stabili, e via dicendo). […] Nuovi pericoli aleggiavano nell’aria (movimenti sindacali, l’erompere del nazionalismo, l’antisemitismo, il pericolo della guerra) che avrebbero ben presto contaminato l’immagine idilliaca della civiltà occidentale, liberandone il potenziale di “barbarie”. E se c’è un fenomeno che, al volger del secolo, simboleggiava la fine di quest’epoca, si trattava appunto dei grandi transatlantici: palazzi galleggianti, meraviglie del progresso tecnico, macchine incredibilmente complicate e ben funzionanti; e, al tempo stesso, luoghi d’incontro per la crème della società: un microcosmo della struttura sociale, che offriva ’immagine della società non come essa appariva realmente, ma come essa avrebbe voluto apparire per risultare “piacevole:, una totalità stabile con distinzioni di classe ben definite e via dicendo – in breve, l’ego-ideale della società (2009, 75-76)

Per il teorico sloveno, dunque sarebbe stato proprio questo insieme di sovra-determinazioni, e non la portata effettivamente catastrofica dell’evento a giustificarne la ricezione traumatica: l’affondamento del Titanic “fu letto come un simbolo, come una rappresentazione condensata e metaforica del disastro della catastrofe della civiltà europea in quanto tale” (2000, 76). “Siamo soliti dire che la seducente presenza della Cosa ne oscura il significato”, sostiene Žižek, affrettandosi però a dire che, nel caso del Titanic, “è vero il contrario: il significato oscura il terribile impatto della pura presenza” (2009, 77). Il “futuro” preesiste dunque all’evento, condizionandone la nostra interpretazione e ricezione storica.  Si tratta di una riflessione importante, che illumina sui rischi di un’immaginazione apocalittica che si limiti a riproporre immagini e scenari di un “trauma” già avvenuto, oscurando così la nostra comprensione del presente.

2. Economie colate a picco

La situazione che permette al Titanic di diventare “sintomo” è, in nuce, simile a quella vissuta oggi dalla Costa Concordia, almeno stando ai fotomontaggi amatoriali diffusi su blog e social media. E in un recente intervento (Naufrage avec spectateurs… essai de psychanalyse d’un point de vue médiatique…) leggibile qui, lo studioso francese Olivier Beuvelet ha proposto una lettura simile :

Questa fissazione francese (ma, a quanto pare, anche italiana) per la figura del ”naufragio con spettatore” è dunque un sintomo, la cui natura è resa evidente dal suo carattere ripetitivo ed emblematico; un sintomo che ci presenta ben altro da ciò che si ritiene messo in gioco dall’immagine, nel contesto della copertura mediatica dell’evento. Lungi dall’informare, mi sembra che le prodezze estetiche dei fotografi e la fascinazione condivisa per il relitto visto dalla terraferma, insite in queste immagini, abbiano un altro scopo, che manifestino qualcosa di diverso.

Un sintomo, dunque, ma di che cosa? Del tracollo della nostra società, a cominciare proprio dalle nostre inaffondabili e titaniche economie e dalle nostre fortezze galleggianti. L’immagine del naufragio nel cuore del Mediterraneo, per Beuvelet, viene dunque a sovrapporsi ai numerosi tracolli finanziari e agli scandali che dal 2008 si susseguono senza posa. “Per come le cose sono state presentate, Schettino starebbe alla Costa come Nick Leeson alla Barings, o Jérôme Kerviel alla Société Générale: un dipendente azzardato e incosciente”, scrive infatti il teorico francese. E ancora:

Dopo la crisi del 2008 che ha visto la Lehmann Brothers colare a picco sotto gli occhi del governo americano, i naufragi economici sono stati numerosi, e l’idea che la stessa Nave dello Stato possa dichiarare fallimento, o affondare sotto gli assalti delle tempeste speculative, sommersa dal debito, non è più solo un incubo : è un orizzonte concreto per molti paesi. La perdita del rating AAA per la Francia, all’indomani di quel naufragio nel Mediterraneo, avrà solo dato materiale alle rappresentazioni del relitto della Costa Concordia, a questa strana fissazione per quell’immensa casa galleggiante, una sorta di memento mori mediterraneo e vittima propiziatoria per la zona Euro : rallegriamoci, finché stiamo sulla terraferma!

Beuvelet, nel suo articolo, fa esplicito riferimento a Hans Blumenberg e al suo celebre Naufragio con spettatore [1979], il libro in cui il paradigma del “naufragio” è indagato nella sua rilevanza simbolica e filosofica, fin dal suo uso originario da parte di Lucrezio. Tanto più colpisce, allora, che il teorico francese non citi il passo in cui Blumenberg fa diretto riferimento al Titanic. Ne riporto uno stralcio qui di seguito:

In termini quantitativi, il diciannovesimo secolo è stata senz’altro l’epoca dei naufragi. Fino all’affondamento del Titanic, la forza della natura si è manifestata in modo più convincente che mai; nel diciannovesimo secolo, la sola Inghilterra perdeva più di 5000 uomini all’anno per affondamenti; al largo delle coste britanniche ci furono 700 naufragi nei primi sei mesi del 1880, e 919 nei primi sei mesi del 1881 – in memoria dei quali J.M.W. Turner pose un ultimo, fiero monumento dello struggersi romantico per la morte (1997, 67).

Il disastro del Titanic è la “catastrofe” per eccellenza esattamente in quanto appartiene all’ordine naturale delle cose. Il potere di metaforizzazione prevale su quello della realtà proprio grazie all’ineliminabile violenza di quest’ultima: “A dispetto di questa realtà”, osserva Blumenberg, “l’ambito metaforico del naufragio è stato interamente occupato dalla nuova emergente realtà storica contro l’impegno vivente” (1997, 67). Una visione che, sia pure in termini diversi, non è troppo lontana dalla lettura sintomatica applicata da Zizek.

3. “Fuor del pelago a la riva”

La metafora blumenberghiana ha però un vantaggio innegabile: è una metafora a due termini, che non descrive lo stabilirsi di un’icona, ma lo stabilirsi di un tipo di relazione, di una fenomenologia dello sguardo. Il problema, in pratica, non è solo di capire che cosa rappresenti l’affondamento del ‘Titano inaffondabile’, ma anche chi sia lo “spettatore di naufragi” per eccellenza.

Si tratta di una figura soggetta a evoluzioni storiche, come ha appunto dimostrato Blumenberg, la cui fortuna ricorre sempre in epoche crisi cognitiva ed etica di fronte a una catastrofe percepita come imminente. Anche noi viviamo in un’epoca simile, come testimonia il suo reimpiego per definire la funzione dell’intellettuale (e rimando a considerazioni fatte altrove sul recente libro di Raffaele Liucci), e come testimonia l’altro genere di fotografie e icone su cui vorrei soffermarmi.

Immagini virali, spesso condivise su social network e fonte di sdegno condiviso; immagini in cui – per fortuna — non si contempla la furia della tempesta o il panico o nemmeno la propria impotenza, ma la traccia , depotenziata e apparentemente inoffensiva, dell’evento; il relitto, ciò che resta della catastrofe. Beati, e quasi ipnotizzati dalla sua monumentale bellezza. Anche se con le dovute differenze – perché in esse vi è stupido esibizionismo e narcisismo – queste immagini sembrano almeno in parte avvalorare l’ipotesi espressa da Beuvelet sul modo in cui ci definiremo « spettatori » della Costa Concordia negli anni a venire :

In Francia, dunque, ci ricorderemo di questo naufragio a partire dalla nostra relazione di spettatori sulla terra ferma che guardano una  alla , e non come passeggeri che cercano l’uscita in preda al panico, né come voyeurs che guardano gli altri mentre tentano di scappare…. La Costa Concordia, contrariamente al Titanic rivisto da James Cameron, non sarà il luogo del panico totale, ma un bel relitto adagiato sotto la luna. E noi la contempleremo come dei semplici curiosi innocenti, giunti dopo la tempesta a godere della visione del naufragio.

Che la visione del naufragio sia oggetto di godimento, lo prova  la dedizione con cui artisti e produttori di immagini ripropongono le immagini della catastrofe: pittori di naufragi à la Turner, fotografi professionisti, photoshoppers casalinghi, tutto alimenta la nostra estasi di fronte alle rovine – oggi più che mai tossiche e deturpanti – della nave che affonda.

Vorrei chiudere questa riflessione su un’immagine diversa, che incarna la stessa posizione da un punto di vista “critico”.  Si tratta di un dipinto francese di primo Ottocento. L’immagine (che non riproduco per questioni di copyright, ma che potete vedere qui) rappresenta una nave in tempesta, sulla quale un uomo assiste alla potenza dei marosi facendosi legare all’albero maestro della nave.

L’uomo in questione è Joseph Vernet (Avignone 1714 – Parigi 1789, due date che già sono un sintomo quelle), ed è uno dei principali pittori di paesaggio del XVIII secolo, specializzato fra l’altro in rovine, marine e naufragi. Il quadro è stato dipinto dal nipote Horace Vernet, si intitola Joseph Vernet attaché à un mât étudie les effets de la tempête ed è conservato al Musée Calvet di Avignone. Il quadro rappresenta la trasposizione pittorica di un episodio biografico testimoniato da varie fonti e successivamente diventato un luogo comune della cultura pittorica di primo Ottocento. Secondo la ricostruzione dello storico dell’arte George Levitine, è proprio la mediazione pittorica del nipote (a propria volta esponente di rilievo della pittura napoleonica) a riguadagnare fama e reputazione al nonno, le cui quotazioni artistiche erano inevitabilmente scese col mutare delle mode.

L’episodio diventa così un simbolo, ma solo a patto di modificarne drasticamente la cornice di ricezione. L’immagine di Joseph Vernet legato tra i flutti passa infatti a designare due atteggiamenti molto diversi in breve tempo: dall’esaltazione dell’artista borghese o del “curioso” (per riprendere i termini di Beuvelet), che decide di osservare la natura sul modello pliniano dello scienziato-eroe, si passa all’icona dell’artista romantico che si espone volontariamente al pericolo pur di interpretare fino in fondo la propria missione artistica (Levitine 1967, 99-100).  Ad aggiungere ulteriori risonanze all’episodio, sta il fatto che – come d’altra parte Blumenberg rileva – la metafora del naufragio appartiene alla retorica della Rivoluzione Francese, secondo cui il vero simbolo di morte è la bonaccia (la stabilità che uccide la politica rivoluzionaria), mentre la tempesta, incarnazione della Storia, rappresenta il rischio da correre se si vuole produrre un cambiamento. E se guardiamo le date di nascita e di morte del pittore ivi ritratto (1714-1789), non ci stupisce che questa immagine si sia caricata di valori affini alla prospettiva utopica della Rivoluzione.

Per noi che la osserviamo all’alba del nuovo millennio, all’indomani di un nuovo naufragio, l’immagine di Joseph Vernet legato all’albero della nave mantiene una sostanziale ambivalenza: ci riporta allo scacco illuministico giocato da Ulisse alle sirene, figura del coraggio di un’arte disposta a guardare in faccia la catastrofe, ma è allo stesso tempo il simbolo dell’impotenza degli artisti, costretti a rimanere spettatori di un dramma in cui non hanno parte. Ed è, ancora, un’immagine ambivalente rispetto al nostro sguardo sulla storia, stretta com’è tra il rischio di un utopismo chiuso, che restringe lo sguardo a ciò che si sa già come vedere (il pittore che diventa personaggio del proprio quadro) e il potenziale liberatorio di un messianismo capace di orientare la nostra azione a un futuro successivo alla catastrofe. Il naufragio può dunque diventare una dichiarazione di principio sullo stato delle pratiche artistiche, quasi che, per l’artista (e, per tralsato, l’intellettuale o lo scrittore) non fosse possibile rappresentarsi se non in rapporto alla catastrofe: stretto per sempre tra l’impossibilità di agire sull‘evento (ciò che altri hanno classificato come “inesperienza”), o, all’estremo opposto, l’obbligo di farsi spettatore fino alla morte. Ed è proprio inserendosi nella figura e rifiutando di “restare a riva”, che il pittore può produrre uno sguardo auto-inclusivo sul proprio tempo: una circolarità artistica che tende, almeno idealmente, a spezzare l’incanto della Medusa.

Disclaimer: le traduzioni dal francese e dall’inglese sono mie. Sono costretta a leggere il testo di Blumenberg  nella traduzione inglese di U of Chicago Press del 1997:  trattandosi di una traduzione da una traduzione, quel passo potrebbe contenere errori e inesattezze di cui mi scuso.

Credits: Grazie a Flavio Pintarelli per aver condiviso l’analisi di Olivier Beuvelet, altrimenti non mi sarebbe mai capitata tra le mani.

enjoy! (finché dura)

In attitudine popular, cinema, generazioni, this is the end of the world on dicembre 10, 2011 at 8:38 PM

Questa recensione è uno spoiler, nel senso che oltre a togliere ogni possibile dubbio sul finale del film di cui parlo Melancholia (2011), ne rivela anche diversi episodi di rilievo. Ma a voler essere rigorosi, il film è in partenza uno spoiler di se stesso, dato che anticipa il proprio finale e le proprie sequenze salienti nelle spettacolari e nelle sequenze d’apertura, dei veri e propri tableaux vivants che raffigurano la Passione del Mondo in slow motion, stazione dopo stazione. È lo stesso Lars von Trier, del resto, che ritiene necessario rivelare da subito la conclusione (“una specie di lieto fine”, come la definisce non senza una notevole dose di ironia) per evitare che il lettore sia distratto dalla suspence:

 Indeed the ending was what was in place from the outset when he started to work on the idea of ‘Melancholia’, just as he immediately knew that the audience needed to know it from the first images of the film.
«It was the same thing with ‘Titanic‘,« he says as he assumes his favourite interview pose, lying on the faded green cushions on his exuberant couch, arms flung over his head. »When they board the ship, you just know: aw, something with an iceberg will probably turn up. And it is my thesis that most films are like that, really.»

Da Longing for the End of All, intervista di Nils Thorsen (leggibile per intero qui)

Trattando della “fine del mondo”, Melancholia è facilmente ascrivibile alla categoria della fantascienza. Eppure verrebbe voglia di far proprie le riserve che Margaret Atwood, nel suo recentissimo In other worlds (Signal 2011), esprime sulla propria opera, dichiarandosi creatrice di mondi e di finzioni, ma non di finzioni “scientifiche”. Così anche Von Trier, che si astiene dal giocare con i registri della verosimiglianza scientifica e della verità, ma prende la visione dell’apocalisse a fondamento di una riflessione sull’uomo e sulla fragilità della sua psicologia.

Tuttavia, il fatto che un film come questo si occupi della fine del mondo esprime qualcosa d’importante sul nostro presente. In primo luogo, racconta della nostra percezione di civiltà al collasso, la nostra ansia apocalittica (tema esplorato da molti in questi anni, compreso un autore come Zizek nel suo Living in the end times, Verso 2010, ora disponibile in italiano per i tipi di Neri Pozza). Quasi che dall’“Enjoy!” di capitalistica e post-moderna memoria sia ormai indispensabile passare a un “Enjoy it while it lasts!”, consapevoli che non durerà ancora a lungo. Non è un caso, dunque, che Melancholia rappresenti la fine del mondo come un’accettazione – risparmiandoci le corse contro il tempo alla Armageddon, le astronavi in fuga verso l’ignoto e le immancabili derive complottiste della fantascienza apocalittica propriamente intesa. La fine del mondo è già tra noi, e non è qualcosa che sia in nostro potere impedire.

In secondo luogo, colpisce il fatto che la fine del mondo sia narrata non con le modalità di un “dramma fantascientifico”, ma con quelle di un dramma familiare (e l’ispirazione dichiarata è a Le serve di Genet). Certamente questa scelta ha origine nella genesi stessa del film – la volontà di Von Trier di esplorare un aspetto sociale della malattia, il fatto che “i depressi siano più calmi nelle situazioni di emergenza perché hanno già delle aspettative negative sul futuro”. I depressi vivono in una condizione che è già un’apocalisse permanente – tanto più ora che mezzo mondo occidentale sembra vivere in una sindrome da stress post-traumatico. L’etica dei depressi – impietosamente dimostrata da una sequenza del film – è che il mondo in cui viviamo è già cenere. Nessun inferno può essere peggiore di così. Ed è certamente quel che prova Justine (interpretata dall’incredibile Kirsten Dunst)– nome ispirato alla creatura di Sade, ma anche evocativo di Juno, Jupiter, e della giustizia personificata –, trasfigurata in un simbolo sotto la fredda luce dell’altro pianeta. Ma in questo contesto, Melancholia diventa anche una parabola sulla nostra assenza di misura e il nostro antropocentrismo “I promise it won’t hit Earth”, dice il personaggio di John  (interpretato da Kiefer Sutherland) a Claire, come  le traiettorie degli astri dipendessero dai calcoli degli scienziati. E da questo punto di vista, il grande merito del film è la sua capacità continua di scivolare tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra macrocosmo e microcosmo. Ed ecco che una patologia percettiva (la mancanza di empatia sociale, l’incapacità di percepire le realtà intermedie) permette di raggiungere un risultato filosofico: restituire allo sguardo quell’extra-mondità che sola può guarire la nostra «démesure».

Melancholia è un film troppo bello e troppo brutto allo stesso tempo. È un film “brutto”, che non scorre, le cui siderali lunghezze ci mettono a disagio, un film sconnesso, fatto di due parti asimmetriche e in collisione – come i pianeti di cui narra, come le due sorelle Justine e Claire, come il macrocosmo e il microcosmo chiamati a specchiarsi l’uno nell’altro. Ma è anche un film eccessivamente bello, estetizzante, che usa la lucida compiutezza dell’immagine per dire ciò che non si può dire – fino al nero che conclude il tutto: il non-detto come unico spazio per l’assenza di futuro. E il futuro è un registro ambiguo, a metà fra l’onirico e il trasfigurato (i due modi con cui la narrativa, filmica o letteraria, riesce a dire la catastrofe, ad affrontare, mediante la trama di infiniti “mondi possibili”, la sfida di dire il nostro “poterci non essere”, la radiazione di fondo emessa dal nostro possibile morire.

Non esistono piani intermedi tra quello cosmico (dove il tempo eccede qualsiasi possibilità di immaginazione umana) e quello dei piccoli conflitti interni all’individuo (conflitti tra la rappresentazione sociale e il dolore esperito dall’individuo, conflitti tra membri della stessa famiglia, ma anche conflitti tra semantiche, tra significati apparenti e implicazioni latenti). I personaggi obbediscono a impulsi propri, bambole meccaniche di un universo chiuso e auto-alimentato. Un universo in cui non occorre provvedere alle necessità materiali, in cui l’onnipresenza del denaro è segnalata in primo luogo dalla sua invisibilità; come una corrente segreta e sotterranea, il denaro e il lusso, uniti a una raffinatissima e decadente assenza di gusto, modellano i rapporti tra le persone, si sostituiscono ai flussi di empatia.

Eppure, sembra dirci il film (soprattutto alcune inquadrature, come la scena in cui due globi di marmo, accostati tra loro, suggeriscono l’impatto delle sfere celesti) l’immensità del nostro cosmo è tutta racchiusa nel nostro microcosmo, se solo fossimo capaci di leggerne le nervature e le simmetrie; e davvero la fine del mondo ci colpirà così, inconsapevoli fino all’ultimo, persi nei giardini segreti della nostra anima mentre tutto intorno il mondo si prepara a esplode e ritorna al suo silenzio primigenio.

la legge (del) Reale [18 ottobre 2011]

In generazioni, la memoria e l'oblio, malatempora, repubblica delle lettere, taking action on novembre 16, 2011 at 5:27 am

Mi scrive mia madre – il che di per sé è un evento – dicendomi preoccupata che in Italia vogliono rimettere in vigore la Legge Reale. Lo so già. Ho letto la notizia un’ora dopo che era uscita sui giornali, e non mi stupisce, nel clima del mio Paese.

Non ho MAI dico MAI pensato che Di Pietro fosse di sinistra ed questo è il motivo per cui MAI, dico MAI, l’ho votato. Ho fatto cose di cui mi sono pentita, in cabina elettorale, ma MAI dico MAI ho votato Di Pietro, anche quando ci sono stati compagni che si sono lasciati abbindolare dalla sirena dei vari Giulietti Chiesa e delle varie Franche Rame candidati nelle fila di IDV.

Il punto è che a me (classe 1983), la Legge Reale, in barba al suo spettrale nome lacaniano, evoca determinate cose. Per esempio, gente morta sparata (uso il verbo transitivamente in barba alla grammatica) per non essersi fermata a un posto di blocco. Un’infrazione, certo, ma passibile di morte? Invece a molti viene in mente solo il desiderio (quanto, esso stesso borghese o, come si sarebbe detto un tempo, “benpensante”), di tracciare contorni, di dormire sogni tranquilli, senza il rischio che qualcuno venga a tingerli di nero.

È normale che, quando le leggi vigenti (quelle della democrazia) sono screditate, si affermi il desiderio di nuove leggi. Così, quando un cantante viene diffamato da un sito che è una fogna a cielo aperto, si invocano leggi restrittive contro la Rete nonostante esistano già strumenti legali atti allo scopo. Quando vengono commesse delle azioni criminose (per le quali la magistratura e le forze dell’ordine hanno già la possibilità, il diritto e direi il dovere di acquisire prove, filmati, etc, senza lanciare idiote quanto disinformate cacce alle streghe in rete), si invocano leggi speciali. Senza comprendere che la trasformazione dell’ordinamento politico e giudiziario è l’istituzione di una nuova realtà, storica e sociale, da cui non sempre è facile tornare indietro.

Le coltri di fumo nero che avvolgono l’Italia sono molte, oggi. Sono quelle di chi ragiona dal punto di vista dei propri personalismi, di chi ragiona per “bianchi” e neri”, alla comoda di ricerca di un altro su cui scaricare il proprio odio. Misseri, Vasco, il banchiere di merda, lo sbirro di merda, il blackbloc di merda. Va bene tutto.

Sono quelle di chi parla a nastro, essenzialmente, perché a gridare oscenità dietro uno schermo (magari domandando a gran voce di sapere i “nomi e cognomi” dei colpevoli, o presunti tali) ci vuol poco, e ci si sente grandi. Sono quelle di una sinistra che ha perso talmente tanto il senso della propria identità da confondere piani e situazioni storiche, per cui la mafia, gli anni di piombo, tutto stesso case impasto verbale. Legge Reale, DASPO, intercettazioni. Tutto uguale. L’importante è chiedere scusa, possibilmente in diretta.

Ed è questo che porta a dire che il berlusconismo (ma il termine da usare sarebbe un altro, perché non si trova Berlusconi solo in Italia) ha fatto presa nelle menti. In quelli che sfasciano una vetrina pensando alla foto che li inquadrerà, senza sapere di posare secondo un cliché ormai buono per i fotografi di moda (e se fossi una critica letteraria direi, con Lacan, che appagano il desiderio del Grande Altro, ma aver letto Lacan non ha mai salvato nessuno da se stesso). Ha fatto presa in quelli che si sentono (come scriveva qualcun altro meglio di me), più “sfigati” e più “disoccupati” degli altri, chiunque siano, questi altri. Magari perché non sono davvero pronti a mettere in discussione le tante cose inutili che costellano il nostro stile di vita. Ma ha fatto presa anche tra quelli che si classificano aprioristicamente e apoliticamente tra i pacifisti, dimenticando che anche il pacifismo è costruzione, è complessità, è lotta nonviolenta che mette in gioco il corpo.

Essere davvero pacifisti è cosa che richiede un coraggio infinito. Voglio essere onesta ed ammettere che non so se trovo in me un grammo di questo coraggio. Non lo si trova da soli, il coraggio di durare, di essere “responsabili” di un metro quadrato. E non ha niente a che vedere con il fatto (sempre discendente dalla stessa logica legalitaria e tardo-illuministica) di esporre il proprio nome e cognome. A volte è politico negare il cognome, per esempio coprendolo con una X. Il corpo conta molto più del nome.

Il punto è che non basta sostituire Paolo Bonolis con Beppe Grillo, Rete 4 con Facebook, Ambra Angiolini con V for Vendetta (e nemmeno Microsoft con Mac, se è per questo) per cessare di essere spettatori e consumatori. Invece c’è un’intera generazione che si sta formando alla politica solo su Facebook (ed equivalenti). Forse è anche per questo che, di fronte alla Legge Reale, e alla delirante proposta di un partito che oltretutto sarebbe l’opposizione, non tutti saltano sulla sedia. E anzi, alcuni continuano imperterriti a cliccare “like”.

beware of bloggers. riflessioni su “contagion” [21 settembre 2011]

In attitudine popular, cinema on novembre 16, 2011 at 5:22 am

Fate attenzione ai blogger. Si presentano come indipendenti, interessati solo alla verità o alla corretta informazione (che suona più laico). Ma chi vi dice che siano davvero indipendenti come sembrano? Come fate a fidarvi delle loro motivazioni?
Potrebbe essere questo, in estrema sintesi, il messaggio più ambiguo di Contagion, ultima fatica di Steven Soderbergh (già regista di Sesso, bugie e videotape, Che e Solaris), presentata pochi giorni fa a Venezia e già distribuito da tempo nelle sale nordamericane.

Contagion è un film a metà fra il thriller, la distopia e – almeno per come è pubblicizzato e per un paio di scene – l’horror. Appartiene in pieno, dunque, a quella classe di narrazioni spurie e proliferanti che sembrano essere oggi il brodo di coltura per il ritorno in grande stile della fantascienza, non più alle prese con alieni e guerre interstellari ma con le complicazioni politiche di casa nostra, cioè l’impero e le sue periferie.
È un film ben fatto, a volte un po’ disconnesso tra le sue parti ma nell’insieme equilibrato, pure troppo: non ci sono orrori esagerati, dopo le prime scene mozzafiato la tensione si smorza abbastanza presto, a volte diventa né carne né pesce, e per raccontare di una storia in cui muoiono circa 25 milioni di persone (alcune interpretate da attori di spicco come Gwyneth Paltrow), non è nemmeno particolarmente tragico.
Non mi soffermo sulla trama, perché si tratterebbe di uno spoiler per chi non ha ancora potuto vederlo. Mi limito a dire che ci sono delle lievi somiglianze, non evidenti, sia con The Omega Man (1971), sia con il testo di Matheson che l’aveva ispirato (l’immunità del protagonista, chiamato a combattere per la salvezza della propria figlia, o il ruolo vitale giocato da un’infezione dei pipistrelli).

Come ogni film distopico, Contagion è un film politico, che parla della società e ne sperimenta la tenuta alla luce di un trauma potenziale. Politico non vuol dire propagandistico: e infatti il valore del film (se di “valore” si può parlare) sta nella sua ambiguità, nel lasciare un sapore dolce-amaro che lascia alla fine della visione.
È continuo il gioco con i simboli e le vicende storiche più o meno recenti degli USA, secondo una modalità di citazione (e appropriazione) di fatti storici tipici del genere. Così, ad esempio, per la somministrazione del vaccino si recupera lo stesso sistema di “lotteria” con l’anno di nascita che fu impiegato negli ultimi anni della guerra del Vietnam col ritorno al draft (chiamata di leva obbligatoria), scena madre di tanti film — penso ad esempio alla scena di Ragazze interrotte, dove la protagonista assiste all’estrazione della data di compleanno del suo fidanzato durante la degenza nell’ospedale psichiatrico.

Fedele specchio dei tempi, l’unico luogo che davvero conta assieme agli States è la Cina: dato che deriva in parte dalla struttura realistica che gli sceneggiatori hanno impresso allo sviluppo della pandemia (ispirata alla SARS), ma che sembra anche dare la misura di mutati equilibri storici. Di fronte alla minaccia apocalittica, esattamente come in The Watchmen, le potenze debbono coalizzarsi. E al posto dell’URSS, ovviamente, troveremo la Cina. Sempre che l’altra siano ancora gli States.
Contagion racconta insomma della lotta degli Stati Uniti per continuare a rappresentarsi come l’ago della bilancia in un mondo che cambia, ma anche della sua lotta interna per non perdere completamente ogni residuo di umanità. La retorica del “caos”, del disordine inevitabile in strutture sociali alla fine dei tempi; in cui alcuni danno il meglio di sé, ma i più si scoprono ladri, profittatori, stupratori ed assassini.

È dunque un film mediamente “imperialista”, sia pure con ambizioni progressiste, tant’è vero che rappresenta negativamente alcuni degli attori politici di destra più importanti in questi anni. I militari, per esempio, più attenti a scovare potenziali trame terroristiche che ad arginare la pandemia («You don’t need to weaponize bird flu. The birds already do it for us», esclama a un certo punto l’epidemiologo Ellis Cheever, interpretato da Lawrence Fishburne, indispettito dalla mancanza di comprensione dei suoi ottusi interlocutori ancora caccia di streghe).
E, sempre nella prima metà della pellicola, dietro al gruppo di donne che contestano l’apertura dei primi ospedali da campo sulla base di considerazioni “economiche” (non coi nostri soldi, in sostanza), è facile riconoscere le argomentazioni dei tea-partiers, che nella spesa pubblica (garanzia dei servizi e dei diritti essenziali a tutti i cittadini, cioè “a tutti gli altri”) vedono solo un odioso dispendio di denaro.

Parlando dell’attualità, tuttavia, la vera parola chiave è, qui, overreaction. Una dinamica simile, del resto, a quanto accade nella realtà, quando i Repubblicani (che gestirono con una noncuranza e una superficialità criminali l’emergenza Kathrina) si soffermano sulla reazione alla tempesta Irene e accusano i Democratici di una reazione “esagerata” (in primis per le tasche dei contribuenti), salvo invocare lo spettro dei flagelli divini….
Mentre si propongono le immagini della devastazione sanitaria e sociale creata da questo morbo, è continuo infatti il parallelo con i casi della Sars o della H1N1, considerati da molti episodi di panico gonfiato ad arte per garantire gli interessi dei grandi marchi farmaceutici.
Meglio reagire in modo esagerato che lasciare la gente a morire, ripetono in continuazione gli epidemiologi e i militari, nel corso del film. Da qui a riconsiderare i “falsi allarmi” di Sars e h1n1, il passo è breve. Allora esagerammo, è vero: ma se non avessimo fatto niente?
In altri termini, se dobbiamo scegliere tra il disinteresse ostentato dai “falchi” verso chi non appartiene alla loro cerchia (religiosa, economica, sociale che sia) e il governo del panico, tanto vale scegliere quest’ultimo. Poco importa che sia proprio governo del panico la più importante arma di cui dispongono i “falchi” per aumentare il proprio potere e la propria credibilità.

E che non ci sia scampo, rispetto al governo del panico, lo dimostra anche la storia dell’altra “infezione” narrata dal film, molto più pericolosa della malattia letale: il contagio del panico e della disinformazione che infetta le menti di chi si affida alla rete. Una delle tante sottotrame, infatti, riguarda il personaggio di Alan Krumwiede, caricatura di pseudo-giornalista complottista cui Jude Law presta un’interpretazione sopra le righe e decisamente poco verosimile. Con una qualche credibilità, il personaggio di Krumwiede sembra motivato più da risentimento verso le redazioni ufficiali (colpevoli di avergli sbarrato la porta) e da esibizionismo che da interesse personale, anche se quest’ultimo prevale. L’unico vero cattivo del film, insomma, è un blogger, che semina il terrore e infonde fiducia in palliativi assolutamente inutili, senza nemmeno le attenuanti concesse agli altri personaggi che si macchiano di corruzione: il blogger non cerca di salvare la vita dei propri cari, non cerca di sconfiggere una malattia letale costi quel che costi, è mosso solo dalla vanità per i suoi 12 milioni di click giornalieri.

Attenzione, sembra dire, il film: i militari saranno ottusi e conservatori, ma hanno pur sempre a cuore l’interesse nazionale e, se accade qualcosa di davvero grave, conviene averli in pretty good shape. Capillari, operativi e forti. Fate attenzione, dice ancora Soderbergh: I gruppi farmaceutici controllano l’informazione mainstream, ma chi vi dice che non possano aprire, con le stesse tenaglie, le menti e le bocche dei cosiddetti media indipendenti? “Chi c’è dietro i dietrologi?” potrebbe dunque essere la domanda (in parte anche legittima) di un film che però ha solo rovesci. Davvero una triste morale per tempi che avrebbero bisogno di cambiare.

doppiaggi e coincidenze [29 giugno 2009]

In cinema, la memoria e l'oblio on novembre 16, 2011 at 1:48 am

Ritrovarsi a vedere un film americano doppiato in tedesco, nel cuore di Berlino Est, è una di quelle coincidenze che parlano al cuore. Miracoli del Freiluft Kino, uno dei tanti che animano le serate della capitale tedesca. E quando le coincidenze si accavallano, diventano giochi di specchi che finiscono per ferire gli occhi. The Reader, diretto da Stephen Daldry, è uno di quei film che, doppiato in tedesco, sembra caricarsi di un significato ulteriore, e invece svela tutte le sue opacità, le sue ottusità, le mistificazioni.

La trama sembra semplice: un quindicenne berlinese, nel 1958, ha una breve relazione con una donna più anziana di lui. L’avventura si interrompe prima di avere conseguenze gravi. Dieci anni dopo lui, ormai un giovanotto, studente in giurisprudenza, ritrova l’antica fiamma, seduta sui banchi di un tribunale, come imputata a un processo per crimini nazisti. Benché si dica chiaramente che la donna è stata guardiana ad Auschwitz, il crimine per cui è punita è un eccidio immaginario, l’omissione di soccorso (se non peggio) a un gruppo di prigioniere, intrappolate nell’incendio di una chiesa durante le marce forzate di evacuazione dei campi di sterminio polacchi. Questa scelta narrativa sembra rendere normale il contesto dell’episodio, quelle marce forzate con cui i tedeschi cercarono di cancellare le prove dello sterminio di fronte all’avanzata dell’Armata Rossa. Peccato che così si dimentichi il sadismo di quell’evacuazione, in cui migliaia di prigionieri malati furono costretti a raggiungere a piedi la Germania dalla Polonia, a tappe forzate, tra le fucilazioni di chi restava indietro e quelle di chi provava a fuggire: una vera e propria forma di sterminio, che proseguiva l’opera interrotta di quelle camere a gas. Di questo, però, al regista e agli sceneggiatori non importa. Contano solo le sofferenze della bellissima aguzzina (interpretata da Kate Winslet) che con ironia decisamente evitabile si ritrova “capro espiatorio”: inchiodata da un rapporto ufficiale che non può aver né stilato né firmato dato che – segreto noto solo al suo amante – l’infelice non sa scrivere. Le tocca l’ergastolo, e da carnefice si ritrova vittima.
Eppure l’umanità trionfa. Come ai tempi della loro relazione, il giovane-non più giovane legge ad alta voce intere opere letterarie, che poi registra su cassette e spedisce all’indirizzo del carcere. Si susseguono lunghe inquadrature di frontespizi, rigorosamente in inglese (ma non eravamo a Berlino?): così come in Inglese sono i messaggi che la prigioniera, in uno stampatello claudicante, impara a comporre. L’anima di certi film te la trovi negli errori, a volte.
Per tutta l’ultima ora, il film si barcamena tra il disgusto per la spietata assassina (un sentimento teorico e puramente dichiarato) e la pietà che dovremmo provarne noi spettatori. L’equazione è suggerita abbastanza chiaramente: la poverina è analfabeta, dunque non sapeva quel che faceva. Dovremmo dispiacerci per lei? O dovremmo commuoverci per la storia d’amore mancata, resa impossibile (e ci mancherebbe solo) dal nefando passato della donna?
E le domande si succedono, nella livida aria serale di Frederichshain. Forse dovremmo inferire che i pochi responsabili davvero puniti siano – come l’aguzzina del film – solo i più «fessi», quelli che si sono fatti incastrare, mentre i più colpevoli, sorridenti e volgari, sono riusciti a farla franca? Dovremmo quindi dedurre la totale inutilità dei processi per crimini di guerra?
Oppure dovremmo commuoverci per il sadico barlume di umanità che sembra apparire negli occhi dell’ex guardiana che faticosamente impara a leggere nella sua cella? Dovrebbe rassicurarci la scena finale, quando tra la discendente e superstite ebrea, il giovane tedesco oppresso dai sensi di colpa e la memoria dell’aguzzina ormai morta sembra ristabilirsi un barlume di accordo, di riconciliazione? E mentre il mio disagio si fa malessere, e l’incomprensione arrabbiatura, la domanda vera si staglia nella mente. Perché abbiamo tanta voglia di riconciliarci con i carnefici, scurdannoce o’ passato? Perché tutto questo bisogno di scoprire che sì, anche se dalla parte sbagliata, i carnefici erano pure loro persone, con delle emozioni e tutto il resto? E perché, per converso, tutta questa insofferenza contro i sentimenti e l’umanità delle vittime, quest’ansia di dire “ebbasta, vabbé, ‘amo capito però…“?
Forse nelle SS di ieri vogliamo scagionare le nostre colpe di oggi: i testimoni silenti, interti e conniventi che rischiamo di diventare in quest’Europa sempre più razzista e preoccupata di difendere il suo benessere. E allora diventa significante che qui gli aguzzini – e i loro amanti – scrivano nell’inglese che ci viene spontaneo pensare oggi come lingua della storia, tanto spontaneo che manco ci accorgiamo che è un refuso. The Reader è la nostra memoria. La memoria dell’anima che stiamo perdendo.