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buon non-compleanno italia [17 marzo 2011]

In generazioni, la memoria e l'oblio on novembre 16, 2011 at 4:53 am

Non oso immaginare l’aspetto delle strade della mia città stanotte, tra le coccarde tricolori delle celebrazioni per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia e il verde brillante dei seguaci nostrani di St. Patrick. Le strade non ancora ripulite di quello sporco tutto particolare (uno sporco fatto di cartacce, plastica ed entropia) che segue le manifestazioni politiche o istituzionali, e subito invase dal sudore acido dei tanti giovani che questa notte la passeranno a ballare.

L’Unità d’Italia come tema del discorso politico e San Patrizio sono due cose che non c’erano durante la mia adolescenza. Per la verità, quando ero alle superiori, cominciava a vedersi in giro qualche matto che andava a spaccarsi di birre e di balli in qualche palazzetto dello sport di provincia. Quanto all’unità di Italia, ricordo che l’allora Capo di Stato Carlo Azeglio Ciampi, in un’inaugurazione dell’anno scolastico (2000/2001, credo) ci fece su un bel pistolotto retorico, peraltro adatto alla cornice (la cerimonia si teneva al Vittoriano). Un fatto che mi costò il voto più basso mai appioppatomi ad un tema in classe, per manifesto anti-patriottismo.

Questo 17 marzo conguaglia solo due tra le tante feste artificiali o commemorazioni ufficiali che visto spuntare come funghi nell’ultimo decennio. Anche se non è una festa, penso ad esempio alla Giornata della Memoria (iniziativa nel complesso meritoria, che rischia di non servire se ci si limita a portare la scolaresca al cinema per una mattinata, senza un adeguato percorso, ma che alcuni insegnanti sanno davvero trasformare in un’occasione di apprendimento e di civismo), e il Giorno del Ricordo, istituito per una volontà di inversione resa evidente fin dal passaggio di genere grammaticale (memoria → ricordo; giornata → giorno); ancora, sono stata testimone dello scandaloso ripristino delle parate militari il 2 giugno, in barba al vilipeso articolo 11 della nostra Costituzione. L’elenco potrebbe continuare, numeroso quasi quanto quello delle beatificazioni di Papa Woytila: a testimoniare di uno Stato (l’Italia) talmente in crisi da continuare a compattarsi su eventi pubblici destinati a generare ondate di retorica sempre più corte.

Che il nostro sia il tempo della celebrazione continua, non sono certo io la prima a dirlo: Meschonnic, ad esempio, dedica a questa constatazione financo banale diverse pagine del suo Pour en sortir du post-moderne (Paris 2009; non ho idea se sia stato pubblicato in Italia). Nell’epoca della mediocrità elevata a sistema di vita e del privato come unico orizzonte dell’informazione, tutti possiamo diventare supereroi, e per la stessa ragione ogni gruppo e ogni identità ha il proprio giorno, quasi un certificato di esistenza nel mondo.

La continua proliferazione di festività, giornate di lutto e celebrazioni, con la sua pomposità di fascismo post-moderno, trova poi un’eco nel continuo proliferare del discorso in ondate, anch’esse sempre più corte, fatto patente a chi si aggira per la blogosfera. Ogni settimana ha il suo piccolo epicentro, fatto di garriti e barriti telematici, fatto di copiaincolla compulsivi e di piccoli isterismi collettivi, che producono picchi di produzione verbale ma non sedimentano mai in discorso, secondo una logica, a cui, per essere amor di verità, nemmeno il qui presente blog e la qui presente blogger sfuggono – la logica è nel mezzo, non nelle persone che credono di usarlo e ne vengono fatalmente usate.

Viviamo in un perenne funerale di stato, e non ne siamo nemmeno consapevoli. Tutto è celebrazione e tutto è trauma. L’imperativo di ricordo (di per sé un controsenso, peraltro) è esteso ad ogni sfera del vivere, trasformata in atto pubblico proprio mentre l’informazione è sempre più ridotta a mostruoso allagamento del privato nelle nostre vite (il privato di alcuni, naturalmente, lasciato dilagare senza più alcun confine tra notizia, gossip e velinismo di stato). L’equazione tra storia e narrazione è pertanto implicita nel suo contenuto reazionario, senza quasi alcun bisogno che tale vocazione politica sia ribadita esplicitamente: già questo continuo trapasso dell’effimero è una forma di manipolazione. E anche quando ci illudiamo di usare le occasioni per rilanciare il “nostro” discorso politico, ne siamo fatalmente risucchiati – sono icone ready made, si portano addosso valori fabbricati da altri.

Perché si fa presto a mettere una bandiera come avatar nei propri profili, e a dire che l’Unità d’Italia è un valore della Sinistra: ma che cosa scegliamo, quando facciamo del 17 marzo (e non, poniamo, del 25 aprile) il cuore del discorso politico, compreso quello che vorrebbe dirsi “altro”, antagonista e alternativo? Scegliamo di ribadire che l’Italia in cui viviamo è quella dei Savoia, monarchica e oligarchica insieme, fondata per un atto di RealPolitik, sulla cui retorica si sono giustificate le peggiori porcherie (perché l’auto-proclamazione del Fascismo come compimento del Risorgimento è, tra le tante mitologie e mistificazioni di quel regime, una delle più potenti e velenose, almeno secondo Luigi Salvatorelli; per una dimostrazione “iconografica” di tale costrutto, si veda il film di Alessandro Blasetti, 1860, nel doppio finale, quello fascista che si chiude con la sfilata delle camicie nere, e quello dell’edizione rimontata del 1951). È l’Italia colonialista e borghese che va dal 1861 alla Guerra di Libia, passando per Adua e ripartendo per arrivare ad Assis Abeba e all’Amba Aradàn – che non è, come pensano a Bologna, un “casino terrificante”, ma uno dei massacri in cui il nostro Regio Esercito fece impiego di iprite. È quell’Italia che il colonialismo ce l’aveva all’interno dei propri confini, e che del meridione ha fatto una “questione”, applicando ai suoi abitanti, per oltre un secolo, quella retorica di ‘denigrazione’ e di ‘squalificazione’ che piace tanto alla Lega, e che in un paese civile risponde al nome di “razzismo”: eppure continuiamo a chiudere gli occhi, pensando che ammantarci di un tricolore in funzione anti-leghista basti a risolvere il problema di uno sciagurato colonialismo intero, e di una sciagurata “fuga dei cervelli” interna, su cui si fonda di fatto la nostra unificazione culturale. Scegliendo la data del 17 marzo, si sceglie la continuità con la Destra e la Sinistra Storiche (ah! Il pareggio del bilancio!), con lo squallore di lunga durata del ‘trasformismo”, e con quella Belle époque italiana che fu tanto bella da regalarci D’Annunzio e Mussolini; e si sceglie una – in barba al suffragio universale MASCHILE, conquistato sul Piave, quello sì, a forza di cannonate e di carne da cannone.

Da persona che è stata portata in piazza a ogni 25 aprile a stringere la mano ai “vecchietti dell’ANPI”, mi piacerebbe pensare di appartenere a un altro Stato, quello nato dalla Resistenza, quello nato il 2 giugno 1946, quello in cui anche noi donne possiamo votare; eppure, comincio a pensare proprio ora che il 17 marzo sia, in fondo, l’anniversario più adatto per questa orrenda Italia, incapace di riscatto e di sollevazione, incapace di memoria vera e condannata, per questo, a ripetere il proprio destino.