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il trentesimo anno [2 agosto 2010]

In generazioni, la memoria e l'oblio, malatempora on novembre 16, 2011 at 3:54 am

I bolognesi io li distinguo da due cose. La prima, se son nati alla vecchia maternità o a quella del S.Orsola. La seconda, se il due agosto scendono in piazza. Io sono figlia di calabresi e non ho nemmeno un morto seppellito alla Certosa: ma sono nata alla Maternità e scendo in piazza ogni due agosto. Beh, non proprio tutti, per la verità. Per qualche anno, ho saltato il rito: complice il lavoro estivo, che mi costringeva a fissare le ferie nei pochi giorni disponibili, quasi sempre nella prima metà del mese. Ma salvo cause esterne, il corteo verso la stazione è il mio appuntamento fisso, l’ultimo impegno dopo il quale si può anche partire.

Sono passati trent’anni esatti da quella strage. Quello che allora era il delfino di Giorgio Almirante, è oggi impegnato in uno scontro al vertice con il presidente del Consiglio, del quale ha denunciato la mentalità illiberale e aziendale. Molti – a mio avviso peccando di ingenuità e di scarsa memoria storica – lo considerano l’ultimo baluardo della democrazia. Tra le continuità e le fratture storiche, non so che cosa preferire.

I giovani nati nel 1980 sono oggi i protagonisti della cerimonia. Sono loro, oggi, a leggere i nomi delle 85 vittime. Protagonisti di una commemorazione, ma non delle loro vite. Me li figuro, alle prese con contratti precari dalle scadenze sempre più ravvicinate, questi giovani che a trent’anni suonati continuano a esser percepiti come “ragazzi”. E la memoria di questa strage è ahimè precaria come la generazione nata in quegli anni. Molti giovani di Bologna (studenti di scuole medie inferiori e superiori) credono che a far saltare in aria la stazione siano state le BR, o magari la mafia. Che ci sia stata un’eversione nera, un terrorismo neo-fascista, uno stragismo “di stato”, pare un capitolo di storia dimenticato. Del resto, a che servono le differenze?

Viviamo in un universo di segni. E da qualche mese, i segni delle stragi mi si affollano intorno in una maniera che definirei inquietanti. Uno degli ultimi libri che ho letto (Milano è una selva oscura, di Laura Pariani) si chiude sullo scoppio di Piazza Fontana. Meno di un mese fa mi sono trovata in Piazza della Loggia, di fronte al luogo dell’esplosione. E non ho potuto fare a meno di deglutire quando – è un’altra cosa, lo so – mi è stato proposto un volo di rientro per Bologna il 27 giugno. Ho deglutito a vuoto, prima di chiedere all’addetta di cercarmi un’altra data. Quasi che tutte le strade, tutti i binari portassero lì, a quella pista eversiva, a quel progetto di attentato alle istituzioni democratiche di cui oggi Paolo Bolognesi ha parlato con grande e coraggiosa chiarezza. A un piano di eversione in cui ancor oggi viviamo.

Tutte le strade portano alla stessa stazione, allo stesso centro nero. Che però sembra sepolto dalla dimenticanza, dal segreto di stato, dal velo delle impunità. Per la prima volta dal 1993 manca sul palco un rappresentante del governo. Bologna non è più quella città dove ci si rifiutava di dare “un panino o una goccia di benzina” ad Almirante (era il 1971 quando sedici dipendenti del Cantagallo, autogrill vicinissimo ai luoghi della strage di Marzabotto, improvvisarono uno sciopero per protestare contro la presenza del segretario del M.S.I.): ma persino una mezza manciata di fischi e di contestazioni sono troppe per Cesare e i suoi servi. Il “cerimoniale” è stravolto. Ma per una volta, non ci sono ipocrisie. Alla lettura del messaggio del Capo dello Stato (che non è il Presidente del Consiglio, come molti sembrano credere) segue l’intervento del Presidente dell’Associazione delle Vittime. Punto per punto, si sentono i nomi e i cognomi, le trame, le complicità, le protezioni reiterate ancora nel presente. E, per una volta, nella piazza volano solo applausi.

Avevo 21 anni quando mi sono resa conto, per la prima volta in modo cosciente, che preferivo sedermi su una valigia al primo binario, stravaccarmi nell’atrio, o persino in terra tra chiazze di aranciata colata e fazzoletto sporchi; ovunque, purché non su una poltrona della sala d’aspetto. La persona con cui viaggiavo, una ragazza del centro Italia, non capiva, insisteva per aspettare al chiuso, al caldo; ma, io al pensiero di sedermi in quella Sala d’aspetto, mi sentivo qualcosa sul gozzo. Non credo, a tutt’oggi, di esserci mai stata per più di due minuti, sicuramente mai da sola.

La commemorazione funebre è un rituale. Un rituale funebre, che ci rende tutti testimoni di un trauma, anche chi non l’ha direttamente vissuto – perché non era ancora a Bologna, perché non era ancora nato. Dire che siamo tutti sopravvissuti non rende l’idea. Anzi, è una frase irrispettosa verso i sopravvissuti veri, i 200 feriti lasciati dall’esplosione, un tipico esempio di quella retorica che annulla le differenze. Forse si potrebbe dire che siamo tutti potenziali vittime. Sarebbe più corretto. Per ogni bolognese, la bomba alla sala d’aspetto è una morte potenziale. Un alito nero, che ha sfiorato un parente, un amico, un genitore, la propria stessa esistenza. Nel 1980 mia madre era una matricola universitaria. Quasi ogni sabato si recava a Ravenna con il treno di mezza mattina, a trovare una coppia di parenti. Come in uno scambio ferroviario, una diversa coincidenza dei destini e io oggi non sarei, semplicemente.

Avevo 6 anni, forse 7. Sapevo già leggere, di questo son sicura, ma non sempre riuscivo a comprendere quello che leggevo. Che cosa volevano tutti quei grandi arrabbiati? Gridavano forte: c’era forse da aver paura? E quella scritta rossa, enorme, a lettere di fuoco, “Bologna non dimentica“: che cosa non dimentica, Bologna? “Hanno ragione”, rispose laconica la mia mamma. E cominciò a raccontarmi una strana, confusa storia di treni e di bugie. Oggi, nel corteo vedo sfilare una nonna, che tiene per mano i suoi due nipoti. Molti altri piccoli, protetti da cappellini di colori chiari, sfilano in braccio ai papà e alle mamme, o fanno cenni buffi dai sellini delle biciclette. Che cosa ricorderanno di questa giornata? Chissà se a trent’anni ricorderanno di aver sfilato, oggi 2 agosto 2010?

Il corteo è un rituale, un rituale funebre, ma non nel senso in cui lo vorrebbe chi ha disertato la piazza per sottrarsi ai fischi. Non nel senso in cui lo vorrebbe chi richiama la piazza al vittimismo, a un vuoto e indistinto cordoglio che appiattisce insieme vittime e carnefici in una indiscriminata retorica. Quel senso che trasforma tutti in vittime, incapaci di reagire, di rialzare la testa. Di colpo realizzo che l’assenza dei rappresentanti istituzionali – la piazza finalmente lasciata a chi la sente, la piazza non più oltraggiata dalle parole false di chi non ha mai rinnegato il proprio passato – è un falso problema. Sbagliano se vengono, sbagliano se non vengono. E’ la loro posizione, ad essere sbagliata. Nessun “discorso”, nessuna “parola” può contornare quel vuoto, può riparare dall’abisso. Non esiste una modalità di discorso possibile, in assenza di verità.

Fa caldo, nel piazzale, e diverse barelle si avvicinano verso l’atrio. Una, in particolare, porta una borsa nera. Penso a una valigia incustodita, e un brivido mi corre per la schiena. Mi rendo conto che è attrezzatura medica, e mi riscuoto. Mi rendo conto che fa strano, vedere un’ambulanza nel luogo dove, trent’anni fa, gli autobus divennero improvvisati pronto-soccorsi, sentire una sirena (polizia? pompieri? pronto soccorso?) in quello spazio-tempo che per noi esiste sotto forma di fotogrammi e di voci registrate, “Una bomba…”. Mi rendo conto che agiamo in base a riflessi scontati, a conseguenze implicite di una parola, di un gesto, di un’istruzione sedimentata in qualche angolo di cervello (‘Non lasciare il tuo bagaglio incustodito, potrebbe essere una bomba…’). Continuiamo a vivere di traumi, un segno sovrapposto a un altro segno.

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